Theoria degli affetti #2. Abitare le conseguenze è un progetto in itinere di Isabella Bordoni che apre un varco nell’istituzionalizzazione della vecchiaia. È cominciato nella primavera dello scorso anno a Vignola, nella Casa di riposo per anziani e malati terminali Giorgio Gasparini. L’artista vi ha soggiornato per due settimane descrivendo verbalmente la sua co-abitazione, raccogliendo testimonianze di residenti e operatori, mostrando gli spazi della Casa nelle foto di Marco Caselli Nirmal e restituendone i suoni con un radiodramma prima radiofonico, poi urbano. Dieci codici QR, abbinati a dieci pannelli, lo hanno diffuso a Vignola.

«Theoria degli affetti» si declina attraverso un’azione particolare che è l’«Abitare le conseguenze». Quali sono queste «conseguenze» che ha abitato?
Abitare le conseguenze significa vivere oggi fuori dai circuiti familiari e nel sociale, le conseguenze di chi ci ha preceduto – amicizie, reti affettive, lavoro, linguaggio – che non è biografia, proprietà di qualcuno, ma qualcosa di nostro, che sta nella vita del mondo. Vuol dire poter ereditare e testimoniare l’immateriale, parole, gesti, nomi, secondo assi non patrimoniali o genealogici. La terza età, come è concepita oggi, è ad altissimo rischio per molte fasce di persone. Negli ultimi cinquant’anni il vecchio non ha più funzione nella società se non come «assistito», per quanto può fruttare secondo il reddito che possiede. C’è un business articolato intorno, che coinvolge industrie farmaceutiche, mass media, enti pubblici e privati nei settori igienico-sanitario, alimentare, amministrativo, manutentivo. Chi non ha una pensione, chi ha seguito strade diverse dalla norma, quando non è più produttivo non ha alcuna garanzia. Tecnicamente, molti di noi non la avranno. Ci si può allora rassegnare al disagio o si possono muovere alcune leve per spostare le prospettive del benessere, immaginare forme di mutualità alternative a quella monetaria, tornando a vivere in casa o modificando gli spazi di cura per apprezzare però i beni immateriali che l’«anziano» lascia. E tutelare così la sua persona. Se «conseguenza», solitamente, è un’espressione terminativa, un risultato, una conclusione, io la intendo invece come spazio dialettico di arrivo per la riapertura.

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Pensa di poter sostituire il welfare gestito dall’economia con lo scambio di beni sociali e affettivi?
Siamo ancora nella prima fase di un processo dal lungo corso. Da parte mia, sto tentando di aprire canali di comunicazione, di sensibilizzazione, di educazione per sottrarre la vecchiaia alla gestione monetaria. Rette, medicine, manutenzione dei corpi, sono fette economiche troppo ghiotte e consistenti per essere scardinate nel macro sistema, ma possono essere sostituite nel micro sistema, istituendo forme di scambio preziose come il senso civico, la memoria e il patto sociale.

Ma qual è la caratteristica che lo fa definire un progetto «artistico»?
Ogni eredità e ogni testimonianza richiede parole e gesti di presenza. Anni fa, ho iniziato a riflettere sulle questioni del testimoniare e dell’ereditare. Entrambi i termini hanno sia un’accezione giuridica – testimone è chi ha parte in un processo civile o penale e l’eredità è legata alla trasmissione, perlopiù parentale, di proprietà e beni materiali, che richiede procedure legali – sia un’accezione metaforica e immateriale, relativa alle culture e agli affetti. Erede, dal latino heres, colui che «prende», che «si impadronisce»… e dal greco cheros, «deserto», «spoglio», «mancante», rinvia a sua volta al termine orphanos, perché essere erede significa anche essere orfano. Ereditare e testimoniare indicano una provenienza e indicano una mancanza: si eredita «da» e si testimonia «chi» o «ciò che» non è più al mondo.
A questa provenienza e a questa mancanza, cioè a questo fluire di vita e di morte, si risponde con un atto di presenza che è sempre creativo, cioè di messa al mondo di un mondo e di un’altra e nuova soggettivazione. Nel mio caso è un atto artistico nel senso che l’esito non può essere amatoriale, ma deve avere rigore estetico: per il rischio che si corre nell’assunzione di questa responsabilità e in quanto possibilità (desiderio e volontà) di tener ferma la presa (la presenza) sulle forme, sui linguaggi.
Nella costruzione degli esiti pubblici, all’interno di tutto il lavoro di legame tra ospizio e città, ho cercato l’alta qualità: un allestimento acustico in grado di far esplodere il dentro nel fuori; un preciso percorso fotografico d’autore, e Nirmal, entrato per poco a Casa Gasparini, è stato ineccepibile. Pensare che oggi il corridoio a piano terra della Casa è una galleria fotografica diventata pubblica – come una galleria civica o una biblioteca comunale – è un grande passo, reso possibile da processi e da linguaggi artistici.

Può descrivere la sua esperienza nella Casa di riposo? C’è qualcosa che non si aspettava di trovare, che l’ha portato fuori e anche lontano dalle idee originarie?
L’ingresso nella Casa è stato procrastinato più volte in due anni, per intoppi burocratici. Lavoravo a un’immagine di me che proiettavo lì dentro: mi vedevo negli spazi che già conoscevo, immaginavo il mio ingombro corporeo, i tragitti… A un certo punto, il progetto è parso fermarsi, così da indurmi a sospendere questo esercizio, tanto che poi, quando iniziò, mi trovai spontaneamente impreparata. Chissà se è un’esperienza che accade a ogni anziano che entra in ospizio per restarvi. Per me è stato un bene, ha creato una condizione di disarmo. Totalmente disarmata non potevo essere e allora ho indossato le cuffie, ho preso il registratore e il microfono e sono uscita così, identificandomi con il ruolo che volevo avere. All’inizio, il suono continuo del campanello di chiamata è stato scioccante, non riuscivo a farmi strada in uno spazio sonoro così bisognoso. Poi ho capito che l’ascolto era la chiave per l’accesso. Anziani, parenti, personale O.S.S. ma anche delle pulizie mi chiedevano: «Quando mi ascolti?». E io ero lì per quello, non c’era simulazione. Ho assunto un atteggiamento di totale accoglienza, senza più resistenze, neanche all’odore. Alito, denti, stomaco, digestione – gli odori della vecchiaia – sono diventati per me veicolo affettivo. Lì tutto è caduto. Rendersi prossimi a degli estranei, testa a testa, gomito a gomito, abbracciare e farsi abbracciare, apre a una facilità della relazione che è la felicità, la cifra di quel luogo. Non l’allegria semplicistica e paciosa di un qualsiasi stare insieme, ma l’approdo all’io profondo della vecchiaia.

Ha avuto mai l’impressione di essere un’intrusa?
C’è stata molta intimità anche con gli anziani in fase terminale. Hanno dovuto fidarsi di me, rischiando, nel patto di fiducia, più di quanto non rischiassi io. Sembrava che mi chiedessero di esser degna di loro. Nello spazio di dignità in cui sono entrata, perché ho mantenuto la riservatezza, non c’era posto per l’intrusione. Il personale però si è allarmato per la presenza del fotografo, temendo chel’immagine violasse la privacy degli anziani nei momenti più intimi. Cosa che non stava accadendo, per cui gli infermieri si sono poi scusati. Il medium è stato avvertito come un intruso. La nostra cultura è permeata dal pregiudizio che la macchina fotografica sia il mezzo del voyeurismo, dello scandalo, degli scoop, come se determinati strumenti parlassero esclusivamente determinati linguaggi. La macchina fotografica, invece, può essere un dispositivo poetico e avere fini poetici.

Ci sono tratti della persona anziana di oggi che, secondo lei, sono nuovi e meriterebbero di essere apprezzati?
Sì, mi colpisce molto il loro essere preparati alla comunicazione. Gli anziani, che sono il prodotto ma anche i produttori di questo mondo, hanno proprietà di linguaggio, si esprimono con precisione di termini e concetti, anche se hanno vuoti di memoria o argomentano con difficoltà. Sono informati, grazie alle nuove tecnologie da cui ricevono sollecitazioni. Sanno usare i computer, hanno skype sul telefono. E con i cellulari tengono in vita relazioni parentali e amicali.

Da un punto di vista spaziale e architettonico che cosa è, che rende la casa di riposo un luogo estraneo seppure in città? Come potrebbero cambiare in meglio queste residenze di cura?
Il problema degli ospizi è che sono pensati, in origine, come spazi di reclusione, di controllo all’entrata e in uscita. Casa Gasparini ha la fortuna di confinare con una scuola secondaria. Perciò si potrebbe tirare giù una rete, abbattere alcune barriere, ridisegnare il verde come spazio comune, coltivare nell’orto insieme, anziani e studenti, alcuni prodotti presenti sulle mense degli uni e degli altri, ipotizzare viabilità ibride che attraversano in bicicletta o a piedi gli spazi di collegamento, pensare gli spazi chiusi o aperti – il dentro della Casa/il fuori della Città – come disponibili alla comunità tutta, immaginare non solo forme di intrattenimento nella Casa, ma uscite degli anziani che le abitano verso teatri, cinema, musei. Per la Casa di Vignola è già in atto una ristrutturazione architettonica. Un progetto pilotato da Paolo Portoghesi e dal Politecnico di Milano prevede la nascita di spazi ibridi. Ma gli interventi di modifica degli spazi fisici devono coincidere con una società disposta a cambiare, a pensare il vivere e il morire secondo altri sistemi di valore