Due anni dentro “il perimetro” dello IACP, Istituto Autonomo Case Popolari di Napoli. Si parla di un tetto sulla testa, di istanze essenziali, di vite scavate dal dolore, all’osso della dimensione materiale, di nodi burocratici in apparenza indistricabili. Potrebbe essere l’inferno, invece Aperti al pubblico, esordio di Silvia Bellotti – architetto giornalista che fiorisce come documentarista dopo un atelier a Ponticelli, con la guida di Leonardo di Costanzo – ha una leggerezza liberatoria e a tratti paradisiaca. Tanto da conquistarsi, a Firenze, il Premio del Pubblico, MY movies, Concorso italiano, al 58esimo Festival dei Popoli. E mentre aleggiano “soltanto” Eduardo Beckett Kafka e Pirandello, si sfatano i luoghi comuni sul pubblico impiego, e si dispiega una tragicommedia umana che ci indica la strada. L’Accoglienza come avrebbe forse potuto immaginarla Eleonora Pimentel Fonseca – da me amata in questi lunghi anni da immigrata in Campania – grande cultrice da “straniera” (Bellotti è romana), dell’antiretorica napoletana.

Perché questo film.

Mi affascina il rapporto che i cittadini hanno con lo Stato e su questo avevo girato Il foglio, un corto che raccontava le vicissitudini degli utenti in fila di notte davanti alla Agenzia delle entrate. Dopo l’esterno di un ufficio pubblico, avevo un gran desiderio di vedere il meccanismo dal di dentro. Così nella mia ricerca dell’ufficio adatto, su ispirazione di Antonella Di Nocera, produttrice del film, sono capitata allo IACP di Napoli.

Subito ci si chiede quali siano state le reazioni dell’ente.

Fin dal mio primo ingresso, mentre mi aggiravo spesata, sono stata accolta dalla gentilezza di un usciere, da lì ho conosciuto una dirigente che mi ha inserito nel meccanismo burocratico per fare il film e il commissario straordinario che si è subito mostrato entusiasta.

Sembra ci fosse già sul posto un desiderio di racconto. Da quando esiste l’ente?

Un secolo.

Altrove è stato così?

Da Equitalia stavano chiamando la polizia, e all’Agenzia delle entrate mi hanno detto, non si preoccupi, le faremo sapere. Non si sono più fatti sentire.

Come hai lavorato alla relazione con il/la singola utente.

C’era chi si sedeva a parlare con l’impiegato e tale era la preoccupazione, l’obiettivo da raggiungere, che non si accorgeva di me. Allora dicevo, lei è consapevole del fatto che sto filmando, le va bene? La maggior parte mi lasciava continuare, anche perché c’era la mediazione degli impiegati. Poi c’era chi non voleva farsi riprendere, allora mi mettevo in sala d’attesa e aspettavo che, vedendomi con la telecamera, fossero loro a farmi domande. Con Manu Jahanara Hossain, la signora bengalese che ho cercato di seguire nel tempo (anche per mostrare quali odissee) è nata una amicizia: è una donna magnifica che ha vissuto grandi sofferenze ma ha saputo farvi fronte. Ci siamo aiutate a vicenda.

Anche gli impiegati sono magnifici protagonisti.

Sono andata lì per raccontare gli utenti e le loro storie, ma quando ho cominciato a conoscere gli impiegati, ho capito che anche lì c’era un mondo. Il rapporto cittadini Stato si incarna in queste persone, schiacciate tra il sistema complesso delle leggi – regolamenti e doveri – e quello degli utenti, stremati da disgrazie e situazioni così ingarbugliate, che soltanto l’umanità degli impiegati può oliare questo meccanismo. Ho un grande affetto per loro: Salvatore Duraccio, mio generoso cicerone, Emilia Orsini assistente anche spirituale alla signora che chiede supporto pure per la perdita del marito, Sergio Contaldo col suo humor, Maria De Stefano, che con le sue capacità da assistente sociale, riesce a conquistare anche l’esasperazione della signora con il marito con l’Alzheimer.

Racconti donne difficili da dimenticare, e la loro fatica immane con uomini spesso non all’altezza, ho riso per quello chiamato 23, “o’ sciemo …”.

In quell’ufficio erano soprattutto le donne a portare avanti le istanze delle famiglie e a farsi carico di tutte le responsabilità. A volte mariti disgraziati le avevano fatte soffrire in tutti i modi, ma avevano il polso della situazione e se la sapevano cavare.

Il tuo sguardo: la camera a mano, gli squarci del mare, sempre tenendo ferma l’unità di luogo.

Dall’inizio ho voluto girare il film solo all’interno dell’ufficio. Per rendere più forte immaginare il racconto del fuori. E con Lea Dicursi e Claudia Brignone (montaggio e aiuto regia), siamo state concordi. La camera a mano è il mio modo di girare, di essere libera. Con tutte le dovute “imperfezioni” del caso, di cui mi scuso, ma volevo che i contenuti guidassero. Nessuna “notizia”, solo indugiare tra le emozioni.