Siamo nella parte settentrionale del Mali, una zona infiltrata da milizie jihadiste che arrivano dalla Libia e dintorni. Un gruppo di uomini armati ha preso il controllo di un sobborgo nel deserto nei pressi di Timbuctu. In gran parte stranieri, sono armati di semiautomatiche, parlano arabo e francese invece del dialetto Tuareg o dell’inglese e hanno imposto la sharia alla popolazione locale – niente musica, sigarette, calcio o divertimenti di qualsiasi tipo; le donne devono mantenere il capo e le mani coperte. Anche ridere è pericoloso. Gli adulteri saranno puniti con la lapidazione.

Ispirato al video (diffuso online dagli stessi giustizieri) dell’esecuzione di un uomo e una donna, uccisi a sassate perché avevano avuto figli senza essere sposati, nel villaggio di Aguelhok, nell’estate del 2012, Timbuktu, è il nuovo film di Abderhamane Sissako. Forte di una cordata che include i maggiori produttori di cinema d’autore francese (ARTE, Canal +, Le Pacte..) e il laboratorio del Doha Film Institute, è il primo film visto in concorso qui a Cannes (l’unico dall’Africa), e il quarto lungometraggio del regista mauritano, che aveva esordito proprio sulla Croisette nel 2006, con il bellissimo Bamako.

Come quel film, Timbuku è costruito secondo una struttura corale, anche se meno libera, più simmetrica, che trova il suo esile perno narrativo nella storia di Kidane (Ibrahim Ahmed dit Pinto), che vive in una tenda a breve distanza dal villaggio, con sua moglie Satima (Toulou Kiki), sua figlia Toya (Layla Walet Mohamed) e il giovane pastore Issan (Mehdi AG Mohamed). In seguito all’arrivo dei jihadisti, quasi tutti i vicini di Kidane se ne sono andati, ma lui rifiuta di muoversi –anche se una jeep di miliziani si materializza spesso vicino alla tenda quando lui non c’è e Satima gli dice che sta cominciando ad avere paura. La loro è una vita di contemplazione, «antica», ma la mucca favorita si chiama GPS, Toya ha un telefonino (anche se la ricezione non è granché), in paese si parla di Zidane, e tra i miliziani c’è un ex rapper. Sotto lo sguardo severo, i pattugliamenti regolari e le perquisizioni sommarie dei jihadisti, Sissako accumula dettagli di contraddizioni profonde e i sintomi dell’inevitabile tragedia finale (questo aspetto deterministico, più scritto, è la parte meno interessante del film).

Una dolce melodia si sparge per le strade nella notte, ma poi una ragazza viene frustata a sangue perché ha osato cantare. Un’altra chiede che le vengano tagliate le mani piuttosto di mettersi i guanti…Pastori e pescatori non vanno più d’accordo. Zadou –che ha uno sfarzoso abito con strascico turchese e parla con i galli – è così pazza che nemmeno i miliziani osano toccarla.

Oppressori e oppressi sono separati anche dalla lingua – si parlano spesso attraverso traduttori. E, come in Bamako, riti istituzionali come il processo o un’esecuzione diventano segni non di ordine ma dell’arbitrarietà totale, oltre che dell’ingiustizia, della situazione. «Aguelhok non è né Damasco né Teheran. Per quello nessuno ne parla», dice Sissako nelle note di produzione del film, lamentando l’indifferenza quasi totale dei media nei confronti di quello che è successo in Mali, che poi sta diventando una realtà sempre più diffusa nei paesi dell’Africa. Filtrato dall’occhio di Sofiane El Fani (già direttore della fotografia di La vie d’Adele), Timbuktu ha una qualità pittorica sincopata, eccentrica, quasi austera.

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È molto più tradizionale la formula che Mike Leigh ha scelto per raccontare la vita di un grande artista. Il nome nel titolo di Mr. Turner, il secondo film presentato in concorso, si riferisce, infatti, al pittore romantico inglese J.M.W. Turner. I gialli forti e i blu squillanti frequentissimi nei suoi quadri attraversano la texture di questo film che Leigh desiderava da anni ma che, per questioni di budget, è riuscito a fare solo adesso.

Sono anche i colori che William Turner sr. (Paul Jesson), una figura di padre/assistente/governante, compra per celebrare il ritorno di suo figlio da un viaggio in Olanda. Con uno sguardo un po’ grifagno, il pancione e un respiro pesante che fanno pensare a un grugnito perenne, il grande caratterista inglese Timothy Spall (circondato da un cast del suo calibro) è un Turner tutt’altro che sublime. Antisociale, egoista e goffo, patisce lo snobismo che la Corte riserva alla sua arte, ed è crudele con il rivale Constable. Ma è generoso con gli altri colleghi e incontra il favore di parecchi nobili illuminati e di un brillante, logorroico, John Ruskin (mentre il tradizionalista Thackerey di lui dice peste e corna).

Ha abbandonato moglie e figlie, e tratta la sua domestica – affetta da una feroce dermatite da stress- come un oggetto, ma poi intraprende una storia d’amore quasi adolescenziale con una vedova che affitta camere sul mare. Senza forzare la mano sul dato «revisionista», Leigh racconta Turner alternando la sua vita nei salotti intellettuali londinesi a lunghi viaggi solitari per la campagna e la costa britanniche, illuminati come la luce «divina» che anima le sue tele.