La cinematografia nipponica non è mai stata troppo affascinata dal tema dei vampiri, se si escludono la simpatica serie animata Carletto il principe dei mostri, dove figurava il Conte Dracula, o nel nuovo millennio il ben più serio lungometraggio animato Blood: The Last Vampire e la serie Blood +, i lavori per il grande o piccolo schermo dedicati al vampirismo nell’arcipelago sono davvero pochi. Uscita e prodotta da Amazon, da qualche settimana è visibile sul servizio streaming del gigante americano, per il momento solo in Giappone, Tokyo Vampire Hotel, una serie di nove episodi, scritta e diretta da Sion Sono, regista che da una ventina d’anni a questa parte è diventato una delle voci più interessanti del panorama cinematografico del Sol Levante. Per il cineasta nipponico non si tratta della prima esperienza nel mondo seriale, nel 2013 ad esempio aveva diretto The Virgin Psychics per un’emittente nazionale del Sol Levante, ma Tokyo Vampire Hotel, secondo le stesse parole del regista, è frutto di una libertà espressiva quasi totale, oltre a poter realizzare un enorme set per le scene filmate all’interno dell’hotel, Sono e cast sono volati anche in Transilvania dove hanno girato le parti ambientate nella terra di «origine» di Dracula.

La storia narra le vicende della lotta fra un gruppo di vampiri ed un clan dei discendenti di Dracula e della loro relazione con un’umanità alla soglia della propria estinzione. Una delle due protagoniste è la giovane Manami che si ritrova suo malgado al centro degli interessi dei due clan, mentre l’altra è la perturbante K, che proprio di uno dei gruppi è la guida. I primi tre episodi fra salti temporali e piste narrative che si intrecciano e dramma esistenziale delle protagoniste offrono tutto il parossismo stilistico caro a Sono, sangue che scorre a fiumi ed un senso del macabro e del ridicolo che ricorda le atmosfere metropolitane di Tokyo Tribe. Ma il formato seriale, ed è forse questa una delle note più interessanti di questo progetto, permette a Sono di dar sfogo a tutta la sua ecletticità e a tutte le sue schizofreniche visioni, certo anche con alcune cadute di qualità. Nei nove episodi, in realtà dieci perché sono due quelli numerati otto, si trovano tutte le permutazioni che attraversano la cinematografia del regista fin dai suoi inizi negli anni ottanta, l’uso espressionistico dei colori ed il gusto per il grottesco sanguinolento come fatto in Strange Circus per esempio e la violenza come spettacolo in Tokyo Tribe o Why Don’y You Play in Hell. Ma all’altro lato dello spettro anche momenti di pura poesia e dal gusto minimalista come quelli visti in certe parti di Love Exposure, Bicycles Sighs, The Whispering Star o Heya.

Proprio in questa tonalità espressiva sono completamente immersi gli ultimi tre episodi, forse i migliori. La serie non ha certo la potenza narrativa e di coinvolgimento di un capolavoro come Love Exposure, anche perché forse due o tre episodi centrali potevano essere tranquillamente eliminati, ma resta ugualmente un prodotto di buona qualità, divertente e con tocchi di sognante lirismo concepito in fase di scrittura, da Sono assieme ad altri due collaboratori, come un vero e proprio lungometraggio. Malgrado le sue imperfezioni, TVH ha il merito di mostrarci tutto il talento di Sono e la vastissima gamma espressiva di cui il regista di Toyokawa è capace e che ha infuso nei suoi lavori lungo tutta la sua carriera.
La serie arriverà anche in Occidente non ci sono dubbi, anzi forse è stata creata per funzionare di più all’estero che nell’arcipelago e chissà che forse non sia presentata in anteprima già in qualche festival autunnale o estivo.

matteo.boscarol@gmail.com