Se c’è un paese che non teme i dazi di Donald Trump, almeno per quanto riguarda la web tax, questo è l’Irlanda. Non solo il governo irlandese non ha nessuna intenzione di proporre una misura simile a quella recentemente introdotta da Francia e Italia, ma è stato fra i più attivi per fermare lo sviluppo di una tassa sui giganti digitali a livello europeo.

Non c’è da stupirsi. Da decenni il modello di crescita irlandese si basa sull’attrazione di investimenti diretti esteri, specie grazie alla bassissima tassa sui profitti delle corporation. Questo ha portato molte multinazionali americane a stabilire la propria sede europea in Irlanda, comprese le principali aziende dell’economia digitale: Apple, Facebook, Google e Microsoft. Fissata al 12.5 per cento, la tassazione per le imprese può essere ridotta ulteriormente, come è emerso nel 2016 quando la Commissione europea rivelò che, tramite un complicato sistema di esenzioni, Apple aveva pagato una tassa effettiva dello 0.005 per cento sui profitti riportati nel 2014 da Apple Sales International, una sussidiaria della compagnia registrata in Irlanda.

Bollando queste pratiche come aiuti di stato non legali secondo la legislazione Ue, la Commissaria alla concorrenza Margrethe Vestager aveva ordinato al governo irlandese di esigere 13 miliardi di tasse che Apple avrebbe dovuto pagare fra il 2004 e il 2014. Il governo insieme ad Apple ha però fatto ricorso contro la decisione e il caso è tuttora in discussione alla Corte di Giustizia Europea.

L’approccio delle autorità irlandesi nel caso di Apple è emblematico della posizione tenuta da tutti i governi che si sono succeduti nel corso degli ultimi decenni in Irlanda: toglieteci tutto, ma non la nostra bassa tassazione sulle imprese.

Questo ha portato il governo irlandese ad ostacolare qualsiasi tentativo di uniformare i regimi di tassazione per le imprese a livello europeo. La scorsa settimana, 12 paesi europei fra cui l’Irlanda hanno bloccato la proposta di una direttiva che avrebbe obbligato le imprese dal fatturato superiore ai 750 milioni di euro annui a dichiarare quanti profitti avevano registrato e quante tasse avevano pagato in ciascun paese europeo. La proposta avrebbe permesso di mostrare come alcune imprese utilizzino a proprio vantaggio il regime di tassazione favorevole in stati come l’Irlanda o il Lussemburgo, muovendovi ingenti somme realizzate in altri paesi.

Fra il 2018 e il 2019 il governo irlandese era anche stato fra i più attivi nell’opporsi all’idea di una digital tax europea, anche nella versione più modesta che era emersa come soluzione di compromesso. Dato che in Ue in materia di tassazione vige la regola dell’unanimità, basta che un solo paese si opponga per bloccare qualsiasi riforma.

Lo scorso giugno l’Irish Times, il più importante quotidiano del paese, ha riportato come Facebook avesse sondato con il governo la possibilità di pagare meno tasse in Irlanda per attutire i possibili effetti di una digital tax europea.

A partire dagli anni ’90, quando un decennio di crescita impetuosa aveva garantito all’Irlanda il nomignolo di «tigre celtica», gli investimenti esteri hanno determinato vita e morte dell’economia irlandese. Ma questo modello di crescita economica è basato su un equilibrio fragile e potrebbe collassare.

Di recente, l’Irish Fiscal Advisory Council, l’organo che si occupa di vigilare sui bilanci statali, ha riportato come il 50 per cento delle entrate per lo stato irlandese derivanti dalla tassa sulle imprese sono da attribuirsi a sole 10 imprese.

Se anche una sola di queste imprese dovesse spostarsi dall’Irlanda, l’effetto sulle finanze statali sarebbe considerevole. E anche se a livello europeo la proposta di uniformare la tassazione sulle imprese è stata bloccata, l’Ocse sta lavorando su una proposta per una tassazione minima sulle corporation a livello globale.

Invece che concentrare tutti gli sforzi in difesa di un modello unicamente basato sugli investimenti diretti esteri, per il governo irlandese sarebbe necessario cominciare a pensare ad un modello di sviluppo alternativo.