Una crisi che turba il mondo: quasi 200mila morti e oltre 6 milioni di contagiati; una campagna elettorale intrisa di promesse demagogiche; piazze razziste e antirazziste che la durezza della polizia stenta a controllare; lo US Department of Homeland Security che vede nei “suprematisti” bianchi la minaccia più seria di terrorismo interno. E i rischi per la stessa democrazia a stelle e strisce. Più di rado evocata è la condizione precaria in cui versa l’economia Usa.

 

Lo shock da covid-19 l’ha colpita non meno di altre. OCSE e Fondo Monetario scontano una caduta del prodotto USA dell’8% nel 2020, seguita da una blanda ripresa (+ 4%) nel 2021. Il tasso di disoccupazione è previsto l’anno prossimo montare oltre l’11%. Si è cercato di contrastare il crollo con politiche fortemente espansive.

Per iniettare liquidità nel sistema la banca centrale ha quasi raddoppiato il proprio bilancio, da 4 trilioni di dollari nel 2019 a oltre 7 trilioni. Ha acquistato di tutto: obbligazioni dello Stato e di enti pubblici poco solidi, ma anche titoli di imprese private spesso rischiosi, azioni comprese. Da ultimo, pressato dal Presidente Trump, il responsabile della politica monetaria ha dichiarato – come mai avrebbe fatto il governatore di una banca centrale indipendente dalla politica! – che l’impegno del suo Istituto si concentrerà sulla disoccupazione, disinteressandosi dell’inflazione (che non è pari a zero).

A sostegno di lavoratori, famiglie, imprese, singoli stati dell’Unione i trasferimenti e gli sgravi fiscali sfiorano il 20% del Pil (4 trilioni di dollari), con corrispondente dilatazione del debito delle Pubbliche Amministrazioni verso il 140% del Pil, da sommare al debito privato per un totale che sfiora gli 80 trilioni (quattro volte il Pil). Le autorità di supervisione hanno dovuto attenuare il rigore delle regole prudenziali sugli intermediari finanziari, che non potrebbero tutti rispettarle.

Gli effetti di una risposta siffatta risultano sinora modesti. Ma ancor più preoccupante è che il disastro da pandemia sia piombato su un’economia strutturalmente indebolita. Nel tempo, con accenti diversi su manifestazioni e cause, lo hanno segnalato economisti quali Volcker, Phelps, Stiglitz, Gordon, Krugman, Summers. E la condizione dell’economia non ha certo attenuato il malessere nella società.

Dal 2005 la produttività totale – di lavoro e capitale – è migliorata appena dello 0,3% l’anno. Il rallentamento ha interessato anche altri paesi. Ma che tasso d’innovazione e progresso tecnico siano scemati verso lo zero nell’economia americana è particolarmente grave. Lo è, perché lo sviluppo economico dipende per il 60% dalla produttività (e per il 40% dall’accumulazione di capitale e dal maggiore impiego di forza-lavoro).

Lo è, perché gli Stati Uniti dagli anni Venti del Novecento si erano affermati come leader nell’innovazione. Nelle stesse tecnologie informatiche la produttività, se è aumentata di tredici volte nell’ultimo trentennio all’interno del settore, dopo un fuoco di paglia tra il 1996 e il 2004 ha mancato di estendersi agli altri rami dell’economia statunitense.

Negli Usa resta bassa la quota del reddito disponibile risparmiata dalle famiglie; non è particolarmente elevata l’accumulazione del capitale; mentre la forza-lavoro prima della pandemia diveniva scarsa, l’amministrazione Trump opponeva muri all’immigrazione dal resto del Continente.

Unitamente a questi freni alla crescita della produzione, l’economia e la società degli Stati Uniti sono profondamente segnate da iniquità, instabilità, inquinamento. In un paese dove si comprano per venti-trenta milioni di dollari vecchie automobili fuoriserie restaurate, permangono scandalosi i divari di reddito e di ricchezza tra abbienti e meno abbienti, cittadini bianchi e di colore, maschi e femmine, stati dell’Unione, mentre la stessa mobilità dei singoli, verticale e tra generazioni, si è ridotta anche al disotto di quella di altri paesi.

Ai tanti debiti privati e pubblici si uniscono le possibili bancarotte di imprese e intermediari finanziari e la sopravvalutazione delle borse, drogate dai bassi tassi d’interesse e dalla massa liquida alimentata dalla banca centrale. In una area del globo fra le più inquinate e inquinanti, l’Amministrazione in carica si è sottratta all’impegno internazionale per l’attacco cooperativo al problema ambientale che affligge l’umanità, l’unica soluzione possibile.

Che gli americani vivano al disopra delle proprie risorse, in una sorta di bolla potenzialmente esplosiva di debiti non solo interni ma anche internazionali, emerge da una serie di dati inequivocabili e concordanti.

I disavanzi commerciali con l’estero risultanti dalla pressione della domanda sulle risorse interne e dalla scarsa competitività del made in Usa si sono tradotti in saldi negativi della bilancia dei pagamenti di parte corrente, per mezzo secolo, in ciascun anno dal 1970. Vi ha corrisposto una posizione debitoria netta dell’intero paese verso il resto del mondo che si è cumulata nel tempo sino agli attuali 11 trilioni di dollari, oltre il 50% del Pil. I creditori degli Stati Uniti sono tre: al Giappone e alla Germania – per ironia della storia gli sconfitti della seconda guerra mondiale – si è aggiunta la Cina, vantata dal suo leader Xi Jinping come “moderno socialismo dalle caratteristiche cinesi”.

Se Giappone e Germania sul piano geopolitico preoccupano meno, la primazia degli Stati Uniti è minacciata da questa Cina che continua a dichiararsi socialista. La Cina ha anch’essa gravi problemi irrisolti, ma è comunque divenuta la maggiore economia del globo – con un Pil pari al 20% di quello mondiale, contro il 15% americano – ed è il primario produttore di manufatti, beni agricoli, piombo, carbone, zinco, oro, alluminio, stagno. Punte della sfida cinese sono la Belt and Road Initiative, una nuova penetrante Via della Seta, e il piano Made in China 2025. Il governo cinese preme sulle principali imprese private e ancor più su quelle a controllo pubblico – un centinaio delle quali figurano fra i 500 maggiori gruppi del mondo – affinché si affermino internazionalmente nei settori di punta (ICT, digitale, robotica, big data, intelligenza artificiale, prodotti sanitari e farmaceutici), tradizionale appannaggio della tecnologia statunitense.

Sinora la posizione privilegiata del dollaro quale valuta di riserva ha, se non rassicurato, trattenuto i creditori di Washington dallo svendere i loro dollari. V’è da chiedersi se l’indebolimento recente del dollaro non preluda a un suo ridimensionarsi rispetto a yen, euro e renminbi nella denominazione per valuta delle transazioni e degli averi su scala planetaria. Solo il signoraggio del dollaro ha consentito agli Stati Uniti di perpetuare i loro squilibri. Se il ruolo del dollaro impallidisse, la correzione degli squilibri sarebbe penosa per gli americani. Ma il riposizionamento della potenza Usa sarebbe anche non poco problematico per la gestione del sistema-mondo.