Accade a volte che un corpus anche ridotto di testi faccia emergere un universo narrativo con una inaspettata varietà di temi, personaggi e situazioni: è il caso dei racconti di Sergio Pitol, come si può verificare dall’eccellente selezione proposta in La pantera e altri racconti (Gran Via, pp. 230, € 16,00), che arriva dopo la pubblicazione di tre dei suoi romanzi. Gran parte dell’opera dello scrittore messicano è dunque ora disponibile, ciò che rende anche al lettore italiano possibile notare i riscontri dei racconti nei romanzi, come se i testi brevi – scritti tra il 1959 e il 1981 – funzionassero da lungo apprendistato per l’elaborazione di quelli più lunghi, tutti pubblicati successivamente.
Anche la diversità degli spazi in cui sono ambientati i racconti è una conferma: da un infuocato villaggio di Veracruz a una sala da concerti di un’Europa imprecisata, da una Cina forse sognata a un bosco polacco che ricorda la vegetazione messicana, o a una piantagione di canna da zucchero evocata dalla distanza di un bar, in una Roma anni Sessanta. Sono luoghi che rimandano a un’infanzia di provincia vissuta in ambienti chiusi e opprimenti, oppure a situazioni cosmopolite, stravaganti ed eccentriche: a volte questi mondi si intrecciano in uno stesso testo, come accade nella bellissima nouvelle «Il cimitero dei tordi», o nel racconto «Notturno a Bukhara».

Nessun desiderio di esotismo, piuttosto la concezione della scrittura come luogo in cui si realizzano spostamenti, viaggi, fughe, e dove si cerca un altrove che si rivela impossibile da trovare: un altrove spesso spazio del sogno – componente decisiva dei racconti di Pitol – in cui si rivive l’infanzia, ma da dove si possono anche avere strane visioni del futuro, poi rievocate a posteriori, in un continuo rincorrersi e sovrapporsi delle diverse dimensioni temporali. Non sarà allora un caso se i racconti dello scrittore messicano assumono l’aspetto di un labirinto, con incipit e conclusioni memorabili, il cui centro è tuttavia altrettanto fondamentale in quanto cuore segreto in cui succede sempre qualcosa di strano, di innominabile e di fatale (e per questo spesso rimosso), che può intrappolare il protagonista oppure mostrargli una via d’uscita, ma che in ogni caso lo segnerà per sempre.
Ciò che avviene al centro del labirinto a volte resta nell’ombra, o è solo accennato in una frase, quasi di sfuggita, lasciato a quel territorio del non detto che rappresenta il nucleo oscuro della narrativa dello scrittore messicano: una sorta di stella esplosa, come ricorda Enrique Vila-Matas nell’imprescindibile introduzione, intorno alla quale orbitano corpi che conservano resti della loro luminosità scomparsa.
Anche la scelta di scrittori o artisti come personaggi principali, e di strategie narrative vicine a quelle del meta-racconto non sono casuali, né legate soltanto a mode letterarie degli anni Settanta, e proprio «Il cimitero dei tordi» ne è una esemplificazione compiuta. In questo racconto, uno scrittore ricorda i suoi esordi, il suo primo testo scritto in un bar «piuttosto sordido» di una Roma anni Sessanta, in cui ricostruiva un episodio della propria infanzia, vissuta in una piantagione di zucchero a Veracruz.

Il ricordo di quell’esperienza giovanile sembra fargli ritrovare l’ispirazione perduta, e il racconto che leggiamo si propone dunque come una doppia operazione della memoria, una cronologia che si misura sui piani dell’infanzia, poi degli esordi letterari, poi della maturità in cui si realizza il racconto. I transiiti da un piano all’altro avvengono grazie a brevi frasi, passaggi sottilissimi, sufficienti a collegare eventi anche assai lontani: un meccanismo che annulla la linearità del tempo, e in fondo la stessa idea di una realtà affidabile.

Qui e altrove, tuttavia, non è solo in gioco una mera ingegneria narrativa: nel finale il protagonista afferma che «scrivere quella storia lo aveva liberato dall’infanzia, dal passato, dall’angoscia di non trovarsi a Jalapa durante il funerale del padre.» La scrittura può trasformarsi dunque in liberazione e farsi consolatrice; ma solo per quel tanto che permette di accedere a una dimensione della conoscenza in cui la realtà non ha più le fondamenta solide che credevamo, in cui tutto sfuma, svanisce, si perde senza lasciare altre tracce se non quelle di una scrittura lieve eppure indimenticabile.