Attraverso una grandiosa e solitaria Wanderung fisica, poetica e filosofica, Tiziano Fratus sta elaborando da molti anni uno straordinario lavoro interiore di riavvicinamento e riscoperta del regno naturale, inteso quale incrociarsi di dis-identità, di pensieri inattuali tuttora impensati e di vie di fuga esistenziali, posti al crocevia del tempo. Lui stesso ha definito «dendrosofia» questa ricerca di una forma di sapienza insieme tragica e vitale, intrapresa da alcuni allo scopo di «salvarsi dall’umano che li abitava», cercando la via per relativizzarsi e riunirsi con il tutto.

UN CAMMINO TEMPORALE lungo questa – e magari altre, non nostre – esistenze, guidato da sacre alleanze improbabili e insieme elettive, come quella tra Eraclito, Zhuang-zi e Nietzsche, autori elettivi di Fratus, una triade visionaria cui manca forse solo il nome del logico buddhista Nagarjuna, secondo la cui dottrina il samsara, l’assoluta immanenza del ciclo universale di nascita e morte, e il nirvana, l’estinzione, sono la stessa e medesima cosa.
Non è forse l’albero il simbolo più longevo del mistero del nostro esserci? Anima e natura da sempre si co-appartengono, e costituiscono forse, come ipotizzava Novalis, una serie successiva di potenze, nella quale la pietra, la pianta, l’animale, infine l’uomo, risultano essere di natura affine, consecutiva: «La pietra scintillante che sempre riposa, la pianta sensitiva che sugge, e la bestia selvaggia, ardente, dalle molte forme – più di tutti però il magnifico straniero dagli occhi pieni di senso, dal passo librante, e dalle labbra ricche di suoni dolcemente schiuse» (Inni alla notte, I).

LA SINTESI tra le varie forme, tutte egualmente straniere, di esistenza può essere prodotta, romanticamente, tramite l’immaginazione, ovvero in primo luogo tramite la poesia: ma solo da quella poesia in cui si mostra l’interdipendenza di tutto ciò che è. E se questo potere di risveglio della coscienza vale per l’inanimato, a maggior ragione varrà per l’animato.
Poiché neppure la roccia sogna serena, come viene detto in questo ultimo libro di Tiziano Fratus, Poesie creaturali (edito da Libreria della Natura); anzi, «la natura non ha nulla di buono» (Avvertenza ai naturalisti). Esiste infatti uno scambio, una permutazione, tra tutti gli esseri: lo stesso odio e la violenza che uccidono l’animale non sono forse quelli che hanno ucciso l’essere umano e che sradicano la pianta, ma anche che sventrano la montagna? Non siamo forse tutti fratelli, noi esseri viventi (e non viventi), noi esistenti che vediamo la luce del sole? Non siamo forse, in definitiva, la stessa cosa, che circola e si trasforma – col tempo – aggregandosi e disgregandosi nei più svariati modi? Simpatia tra tutto ciò che è: espressa da uno dei concetti basilari del Tao, quello di trasformazione: «Il cielo e la terra sono nati il giorno in cui sono nato; tutti gli esseri e me stesso siamo una cosa sola» (Zhuang-zi, II).

Detto in modo ancor più forte, che non sarebbe dispiaciuto né a Eraclito né a Nietzsche: «Invero ogni essere è altro da sé, e ogni essere è se stesso. Questa verità non la si vede a partire dall’altro, ma si comprende partendo da se stessi. Così è stato detto: l’altro proviene dal se stesso, ma se stesso dipende anche dall’altro. Si sostiene la teoria della vita, ma in realtà la vita è anche la morte e la morte è anche la vita. Il possibile è anche l’impossibile, e l’impossibile è anche possibile. Adottare l’affermazione è adottare la negazione; fare propria la negazione equivale a far propria l’affermazione. Così, il Santo non adotta alcuna opinione esclusiva e s’illumina dal Cielo» (Zhuang-zi, II).

Esisterà poi davvero la differenza, che pure continuamente sentiamo e soffriamo, tra l’altro e il se stesso? Il perno del Tao, continua Zhuang-zi, è che il sé e l’altro cessino di opporsi. Il Tao è offuscato dalla parzialità; anzi, come ha potuto oscurarsi a un punto tale che ne sia nata la distinzione tra il vero e il falso? Eppure la nostra mente ci espone all’analisi, alla distinzione, alla decisione. La stessa poesia, «è come tagliare l’erba alta con la falce: il principio della distinzione» (Esercizio di cartificazione); l’atto fondativo della parola occidentale è il temenos, l’atto apollineo del tagliare, del prendere la misura, del distinguere; questo è l’embrione della logica (o della il-logica) che governa anche la parola poetica. Tuttavia l’intelligenza grande è quella che abbraccia, la piccola è quella che discrimina; tuttavia la parola grande è quella che illumina, la piccola è quella che espone prolissamente (Zhuang-zi, II).

«Sono grato al Signore degli errori poiché fa arrancare con la testa gonfia di pensieri» (Errori). Vi è un luogo elettivo per questa erranza, che è anche un faticoso, forse inconcludente arrancamento: la foresta. A un certo punto, la nostra esistenza si apre alla grande impresa simbolica dell’andare nella foresta, come un tempo gli asceti, gli anacoreti e gli eremiti.

NASCONO QUI MITOLOGIE selvatiche, si riconoscono qui quel padre e quella madre che sono la foresta stessa, che parlano con la voce dell’esilio. Ma qui si inaugura anche, nel suo luogo più proprio, la figura devozionale, potenzialmente salvifica, della perseveranza (cioè dell’attenzione consapevole), che è poi un’altra definizione della meditazione, della ricerca di quel «sole che nessuno vede» (titolo di un saggio dedicato alla pratica del meditare in natura). Così Fratus ci insegna, in un mondo in cui contano solo l’apparire e il risaltare, a scomparire invece dentro il paesaggio; in un mondo in cui conta solo l’azione, a privilegiare invece il non-fare, il non-agire: «da lungo tempo cerco l’inutilità ed ecco che oggi, minacciato di morire, la ottengo. Questa inutilità mi è molto utile. Se fossi buono per qualcosa, come avrei potuto raggiungere una simile altezza?» (Zhuang-zi, IV). Perciò l’uomo divino non è altro che legno inutilizzabile. È quando un albero non è buono a nulla, che può giungere a un’età tanto avanzata.

Nella meditazione, nel sedersi e dimenticare tutto, letteralmente nel soprassedere a tutto, nel desiderio del deserto, ci si svela che il deserto è anche l’unico paradossale completo appagamento. Per comprendere la vita, separarsi dalla vita – oppure immergervisi?, oppure viverla davvero?, combattere il dolore recidendone le radici, estraniarsi dalle gerarchie, sfuggire a ogni competizione del proprio ego con quelli altrui, dismettendo ogni contemporaneo disvalore. Come «centrare il mare del vuoto» (Il tempo del legno)? Innanzitutto, lasciando appunto cadere il peso più grande, l’io: «Alla fine della giornata mi sono seduto al centro del vuoto: ho lasciato che l’io a cui tanto avevo lavorato si arrugginisse» (Invernare); poi, abbandonando il raziocinio: «non pensare più a niente»; infine, lasciando che risorgano le cose come sono: «cosa esiste senza bisogno di attribuire nome» (Una porzione di terra in fondo alle tasche). Questo vuoto diventa dunque l’unica forma esperibile di pienezza e di totalità, di in-distinzione; un esercizio a non essere più solo se stessi, a sospendere l’io e il mio, il sé e l’altro, a produrre una in-utile inoperosità, a scordare ogni individuale nominazione: «L’uomo perfetto è senza io, l’uomo ispirato è senza opera, l’uomo santo non lascia nome» (Zhuang-zi, I).

Meditazione, natura, poesia. Sullo sfondo di questa ghirlanda luminosa, si staglia il profilo del Monte Tai, il Tempio delle Radici, quelle radici che però rappresentano più il futuro che il passato, che «crescono davanti a noi», come viene detto dall’autore ne Il sole che nessuno vede: «L’uomo è convinto che Dio abbia scelto lui per il futuro del mondo. Ma se invece fossero stati scelti il seme e le piante? Se il futuro dell’universo fosse custodito da questi nostri fratelli silenziosi e non da nostri belligeranti progetti di conquista, scoperta e invenzione?». «Il futuro è più antico del passato» (Errori). Ecco che il Monte Tai, il Tempio delle Radici, rimandano all’ancor sempre magica origine capovolta, alla più vera immagine di un possibile altro-da-sé rispetto agli esiti egoistico-materialistici del pensiero occidentale: l’Oriente – Oriente che per noi vale sempre, e declinato al futuro (come avevano già scoperto i primi romantici), come la favolosa patria della poesia.