«Coprire, Abbracciare / Tutto quello che sono. Tutto quello che non sono / Quello che non sarò mai»: frammenti delle poesie di Ibrahim Ahmed (Kuwait City 1984, ha vissuto nel Bahrein e negli Stati Uniti; dal 2014 vive e lavora ad Ard el Lewa, quartiere del Cairo) che, per la prima volta, vengono condivise con il pubblico, in occasione della mostra personale Burn What Needs To Be Burned da z2o Sara Zanin Gallery a Roma (fino al 19 gennaio).

nche i titoli delle sue opere (fotografie, collage e collage fotografici) nascono dalle poesie: The Things I Hope To Bury (Le cose che spero di seppellire), I Hear It. Telling Me To Show Myself (Ho sentito. Dicendomi di mostrare me stesso), What Comes After Bring Peace To This Restlessness (Ciò che viene dopo aver portato pace a questa irrequietezza), Bring The Offerings Alms I Left At Your Doorstep (Porta le offerte che ho lasciato al tuo uscio), Piece By Piece I Shield The Fractured Flesh I Own (Pezzo per pezzo proteggo la carne fratturata che possiedo).

Parole che tracciano una mappatura utile per muoversi nell’universo visivo di Ahmed. Parlando a se stesso, l’artista che ha conseguito un BA in Letteratura Inglese presso la Rutgers University di Newark, negli Stati Uniti, riflette sui condizionamenti sociali legati allo stereotipo identitario dell’essere un «vero uomo». L’azione performativa diventa un mezzo psicoanalitico per far emergere una parte dell’io in parte negata. Alla fotografia, invece, il ruolo di testimone dell’azione stessa. Nei suoi lavori Ibrahim Ahmed torna sul tema della mascolinità arrivando a formulare la sua visione personale di divinità, non in termini religiosi né spirituali, ma come raggiungimento di quell’armonia totale che nasce unicamente dalla fusione di maschile e femminile.

In «Burn What Needs To Be Burned» la maschera che indossa nelle azioni performative è il punto di partenza. Perché la scelta di realizzarla con materiali assemblati provenienti da una vecchia automobile?
Per riflettere sulla mia relazione personale con la mascolinità sono partito dalla cultura automobilistica che è stata anche la mia iniziazione alla virilità. Associata alla velocità della corsa, questa cultura è una grande consolazione per la mascolinità. Quanto alla maschera fatta con la marmitta di una Mercedes del 1989, è anche un modo per riportare alla storia delle maschere. Quando s’indossa una maschera, in Africa Occidentale così come in Egitto o altrove, l’aspetto virtuale dell’aprire la bocca e gli occhi che avviene nei rituali, quando lo spirito dei morti parla attraverso l’individuo – prete o stregone – che la indossa prende il sopravvento su qualcos’altro. Per me ha un significato metaforico.
Ho chiesto a me stesso se la mia performance fosse autentica e reale o i miei gesti seguissero la conformità. Questo avveniva circa un anno e mezzo fa. Sono anche affascinato dall’aspetto architettonico della maschera, come spazio che contiene cose. L’emotività, ad esempio, e il diverso modo di comunicare emozioni che prevede la tolleranza per le donne che piangono, mentre noi uomini possiamo ricorrere solo a certe espressioni come aggressività, rabbia. Sul retro della maschera, poi, ci sono dei lacci di cuoio che rimandando all’idea della pratica del bondage, ma anche alla schiavitù.

Indossare la maschera implica un’idea di costruzione e decostruzione…
Nei collage su carta (serie Piece by piece I shield the fractured flash I own e I break the promise I made from his tongue del 2018 – n.d.r.) sono stampate immagini in bassa risoluzione: architetture moderne, industriali e anche relative alla cultura automobilistica da riviste automobilistiche, associate ai miei autoritratti che alludono al senso di bellezza e attrazione nel mettere in posa la mascolinità ed il suo fascino. Una conversazione che è avvenuta dentro di me e che, nell’esercizio stesso dell’affrontarla criticamente, è stata importante.

Il pattern ornamentale sullo sfondo dei collage crea un contrasto con il soggetto in primo piano…
C’è una relazione importante sul funzionamento del disegno ornamentale nel Sud globale, soprattutto in Egitto, dove per la classe media e i ricchi implica anche un’idea di benessere, ma anche decadenza e fascinazione. Ancora una volta si tratta dell’idea di potere. Nei miei collage l’altra figura maschile è mio padre. In questo caso c’è la trasmissione di potere attraverso il gesto della mano posata sulla spalla. Si parla di generazione, storia.

«I Am Hollowed Where I Once Was» e «I Hear It Telling Me To Show Myself» sono collage fotografici in bianco e nero in cui c’è una diversa relazione tra soggetto, movimento e spazio…
Ho cominciato a osservare le statue antiche, greche, romane, egiziane; soprattutto l’idea della figura umana che si atteggia al divino prendendone le sembianze, ma anche la perfezione stessa nella rappresentazione della mascolinità attraverso la raffigurazione dei muscoli. Queste immagini si riferiscono, inoltre, ai ritratti di studio dei fotografi che si trovano vicino al mio studio, nel quartiere di Ard el Lewa. Sono partito facendo una ricerca sia sul modo di posare degli uomini che sulla rappresentazione del maschile nei manichini dei negozi. E’ un lavoro molto intimo e psicologico che va al di là dei confini della mascolinità stessa. Ho esitato nel portare altre figure all’interno di questo lavoro, concentrandomi solo su di me. Sono andato più volte nello studio di un fotografo locale per più di una sessione fotografica, realizzando circa 300 scatti digitali – posa dopo posa – che poi sono state stampate. Nel realizzarle pensavo anche a The Elephant Man. Una ricerca che ha coinvolto diversi immaginari.

In «Bring The Offerings Alms I Left At Your Doorstep», le immagini diventano ancora più metaforiche attraverso la presenza di un blocco di cemento legato a una corda…
Ho trovato un’interpretazione contemporanea nell’utilizzare le pietre di cemento con cui vengono occupati i parcheggi. M’interessava sia la natura concettuale dell’oggetto che la sua fisicità. È un blocco di cemento pesante che è sempre lì nel mio studio. L’ho usato per le mie performance. Quasi non mi accorgevo della presenza del fotografo, tanto ero impegnato con quell’oggetto, muovendomi intorno nello spazio, afferrandolo, alzandolo, portandolo. Queste fotografie sono usate come documentazione della performance.

Anche l’ombra entra nel lavoro diventandone parte: in un certo senso rappresenta un alter ego?
Si parla di tensioni, la relazione tra una tensione e l’altra. Parti che dialogano tra loro, ma anche che si combattono l’una contro l’altra.

C’è anche un riferimento alla sessualità?
Penso che il corpo del lavoro sia incentrato più su spazi intimi in cui personalmente non posso avere accesso. È interessante che, però, possa aprire discorsi sulla sessualità. La domanda essenzialmente riguarda cosa voglia dire essere uomo. Ma, ad un certo punto la gente, soprattutto gli uomini, si sentono a loro agio a parlare di sessualità (ride). Lasciamo aperta questa chiave!