Con poco meno del 7% di crescita del Pil, l’economia non è stato un problema né per le Filippine né per il presidentissimo Rodrigo Duterte. Portafogli escluso, il 2017 di DU30 – sigla «cool» con cui è noto il 72enne ex sindaco di Davao tra i più giovani – è passato all’insegna del pugno di ferro contro il consumo e spaccio di stupefacenti e contro la recrudescenza dell’estremismo di matrice islamica ispirato dall’Isis.

La lotta alla droga, con le sue migliaia di «morti collaterali» e sistematiche violazioni dei diritti umani timidamente evidenziate dalla comunità internazionale, non hanno scalfito l’aura di invincibilità di un leader adorato da gran parte del popolo filippino. Anche, e soprattutto, per una modalità di interpretazione del ruolo di presidente particolarmente «schietta e sincera», andando di eufemismi, in linea con una tendenza in voga anche alla Casa bianca.

Dopo aver sostanzialmente mandato «a quel paese» le organizzazioni a difesa dei diritti umani che criticavano la sua mano pesante, Duterte nel mese di ottobre ha portato a compimento la «liberazione di Marawi». Dopo mesi di bombardamenti e guerriglia nella più grande città musulmana delle Filippine, l’esercito ha neutralizzato le centinaia di terroristi islamici affiliate al Califfato, ritrovandosi con una città-colabrodo e centinaia di migliaia di maranao musulmani rimasti senza nulla.

Il 2018 sarà per Duterte l’anno della ricostruzione, della mediazione con la minoranza musulmana per la creazione di uno stato autonomo – Bangsamoro – e, come solito, del pugno di ferro: la legge marziale imposta inizialmente fino al 31 dicembre 2017 per «combattere l’Isis», è stata estesa per un altro anno per occuparsi sia del terrorismo islamico sia dei«comunisti». Per DU30 di ferro, la battaglia continua.