Ci sono diverse variabili in un festival online alle quali speriamo di non doverci abituare, e non è questione di essere «puristi» della sala ma la visione in streaming condiziona le potenzialità di film che sono pensati per ora almeno, non nel format della serialità, con la ricerca invece di un orizzonte, di un suono, di colori, sfumature, spazi che a casa e nei computer mutano di effetto.

Lontani dal festival fisico, dagli scambi, dagli incontri, in un’immersione «full» privatissima la selezione di questa prima parte del Festival di Rotterdam numero 50 su piattaforma (Festival Scope) che si è chiusa ieri – il seguito 2-6 giugno in presenza condizioni sanitarie permettendo – ha però molto raccontato sulle tendenze degli esordi di oggi e sulle «coordinate» che ne orientano le scelte, a partire forse dalla modalità produttiva connessa ai vari Film Lab nel mondo la cui base è per lo più la scrittura.

Verrebbe da dire – per esempio, vietate i droni che svolazzano qua e là con la fascinazione dell’effetto in sé senza interrogarsi sulla loro necessità. Lo stesso vale per il bianco&nero di cui spesso non si comprende la ragione. Nuovi dogmi estetici? E soprattutto: si avverte l’onnipresenza del «contenuto» che elimina la moltitudine a favore di un ordine dimostrativo condizionando lo sguardo. Sarà questo il «format» del futuro?

ACCADE nel film vincitore del Tiger Award, Pebbles, esordio indipendente del giovane regista indiano PS Vinothraj, ambientato in una regione dell’India devastata dalla siccità. La terra arida è stata la materia di uno dei capolavori del Cinema novo, Vidas secas (1963) di Nelson Pereira dos Santos, lì eravamo nel nordeste del Brasile dove vagava una famiglia di contadini con cane e pappagallo cercando una strada di sopravvivenza. Pian piano Fabiano e i suoi familiari sembravano disseccarsi pure loro, perdere qualsiasi sentimento nella disperazione. Lo stesso accade nel film di PS Vinothraj: le persone che abitano quel paesaggio inaridito, bambini e adulti così stremati da dare la caccia ai topi per nutrirsi sono de-umanizzati, privati cioè di dignità.

Ma se Pereira dos Santos destrutturava radicalmente l’iconografia della miseria che aveva fino allora azzerato quei personaggi negandogli il diritto a essere umani, in Pebbles avviene il contrario. I due protagonisti, un bambino e il padre che lo porta con sé per riprendersi la moglie andata via stanca della violenza del marito si perdono in quell’orizzonte polveroso, quasi un western messicano, come gli altri. Intrappolati appunto nella miseria, nella rabbia di maschi violenti e donne incattivite che li racchiude in una rappresentazione bidimensionale a tratti persino fastidiosa – il padre poi è anche alcolizzato come si sottolinea di continuo, che nostalgia per la dolcezza degli ubriaconi che popolavano i film nell’India di John Abraham. È che questo «paesaggio» non si fa narrazione, non dice del mondo, del tempo, delle vite di coloro che lo attraversano continuando così a respingerli sui bordi.

In un bianco e nero sontuoso è El perro que no calla (Il cane che non sta quieto), il nuovo film di Ana Katz vincitore del concorso Big Screen, una scelta però qui legata a un racconto atemporale – vi si colgono i passaggi dell’Argentina tra la fine degli anni Novanta e il nuovo millennio – in cui la realtà è costantemente partecipe di una dimensione fantastica.

SI POTREBBE definire il nuovo film della regista e attrice argentina – tra i titoli migliori del festival – un romanzo di formazione al maschile, un po’ come lo era al femminile il precedente Una novia errante (2007) di cui Katz era anche interprete, che mette al centro la vita di un giovane uomo, Sebastian – è Daniel Katz, fratello di Ana – alla ricerca di un posto al mondo. Quando lo incontriamo è costretto a licenziarsi dal lavoro di grafico perché il suo cane lasciato solo abbaia troppo e i vicini si lamentano – lui non può portarlo in ufficio con sé.

Si occuperà di una fazenda, ma il cane muore, e lui si rimette in viaggio; inizia a lavorare con una cooperativa agricola, ragazzi che coltivano la terra e vendono a kilometro zero sfidando un po’ le regole. Si innamora, tutto sembra sereno, un bimbo sta per arrivare. A un certo punto però un asteroide esplode sulla terra, le conseguenze sono che gli umani devono camminare in ginocchio perché oltre a una certa altezza non possono respirare se non con la bolla, un costoso casco – pensare alla pandemia è inevitabile anche se Katz ha girato prima.

PASSANDO per diverse esperienze, perdite, dolori, scelte la figura di Sebastian si muove tra Buenos Aires e i dintorni attraversando senza retorica una contemporaneità mai sottolineata. I cambiamenti della sua vita – la pandemia, il figlio, la separazione, un nuovo cagnolino – prendono voce nel movimento che da un distacco apatico verso il mondo lo porta a una diversa consapevolezza (critica) di esso. «Ci siamo fatti guidare dalle emozioni e dall’intuito» ha detto Katz, anche sceneggiatrice insieme a Gonzalo Delgado, parlando del lavoro sul film – che è stato preceduto da una lunga preparazione filmata.

Forse troppo calmo o troppo razionale, privo del narcisismo maschile anche se sembra osservare il mondo dal «di fuori» uno come Sebastian ci sta dentro, lo sperimenta appunto. Intorno la vita scorre, la scommessa è catturarne il movimento sentimentale e insieme collettivo, in cui nell’esperienza di qualcuno come il personaggio del film entrano le contraddizioni della realtà a cui appartiene, reali o fantastiche – anche la collisione e il «virus» che sprigiona sono una prova per mettere in moto una diversa priorità dell’esistenza.

Il quotidiano e la storia dei luoghi, l’Argentina, possono prendere forma in quello scorrere lento del tempo (del cinema) che racchiude la calma e l’apocalisse, il mondo e la sua invenzione, il presente e il sentimento che lo abita. Katz ci riesce a restituirli con semplicità, con le sue immagini, i corpi che le fanno esistere, lo sguardo che li accompagna.