Il protagonista di questo romanzo ogni mattina, poco dopo l’alba, si siede a gambe incrociate nel suo studio e interroga i morti. I morti sono i familiari prossimi, gli avi, e nella raggiera che lui stesso ha disegnato c’è anche il suo posto. S’approssimano, i morti, intanto che la luce del giorno si fa strada, più che un’evocazione, è un segreto di vicinanza, un teatro delle presenze che va in scena: «appaiono uno alla volta, emergono dalla penombra quasi senza che io li chiami».

MATTEO TREVISANI è sia l’autore sia il protagonista di Libro del sangue, edito da Blu Atlantide (pp. 219, euro 16), come i suoi due precedenti romanzi, e circa l’attesa dei morti scrive che i primi a comparire sono i suoi genitori, seppur vivi, rendendo subito molto sottile e annullando di fatto la linea che separa la vita dalla morte. C’è un segreto in quelle cerimonie dell’alba, mentre Cosmo (suo figlio) e la compagna ancora dormono, c’è una faccenda di sangue, di questioni che stanno al di sopra del nucleo familiare stesso.
Vicende reali che paiono saltare fuori da leggende lontane, storie che si leggono con l’araldica, con il muoversi dei pianeti, storie che sanno di mare e di alberi, di morti segnate, di altre annunciate.

Trevisani racconta lo studio delle proprie origini dalla scoperta di una sorta di maledizione, di funesta ricorrenza che accompagna la sua famiglia: i primogeniti maschi di ogni linea di sangue muoiono annegati. Così è scritto, così dicono le carte prima ancora che il destino. Un certo giorno lo scrittore riceve nella casella di posta elettronica una e-mail con allegato il suo albero genealogico che contiene la sua data di morte, e alcune divergenze rispetto alle linee degli avi che lui aveva conosciuto fino a quel momento. La data di morte è fissata per il 21 settembre, a poco meno di una settimana dalla lettura della e-mail. Comincia per Trevisani una estenuante e intensa ricerca che si associa a quella già in atto sulla linea familiare: cosa c’è dietro l’evento, cosa accade, cosa dovrà accadere.

L’AUTORE viaggia all’indietro fino a giorni che aveva messo a distanza di sicurezza, per tornare al suo maestro di genealogia – un uomo misterioso e affascinante – Alvise e a sua figlia Giorgia, con cui in ha avuto una relazione. Sarà un viaggio faticoso, tormentato ma luminoso e quella luce guida il lettore tra le pagine del libro che è molto più di un memoir, prendendo i tratti del saggio in alcuni momenti e l’inspiegabile passo della poesia in altri. «Creare il tempo, ecco quello che succede quando si scrive, e non un tempo personale, intimo, ma il tempo di tutti».

È QUESTO uno dei segreti della scrittura di Matteo Trevisani: il tempo creato dalla sintassi, dalla lingua, messo a disposizione di chi legge. Quello che può accadere è di ritrovarsi seduti a gambe incrociate, a quell’ora del primo mattino, a interrogare i propri morti, perché la vicenda dell’autore pare debba riguardarci, e ci riguarda. Libro del sangue ha il dono di essere avvolgente, di seguire il ritmo vertiginoso di un noir senza esserlo, di invitare chi legge in un flusso di parole che suonano come nuove. È una corsa e poi una camminata sul confine – sempre sottile – che separa i morti dai vivi, viene da ricordare che nessuno se ne va per davvero, ma resta nel modo in cui lo teniamo in memoria, con cui lo invochiamo. Infine, si riflette su un’altra questione; chi è qua, Trevisani e chiunque di noi, se ne sta già andando, ha cominciato ad andarsene ben prima di nascere, prima che ci fosse una data.