A meno di un anno dalla scomparsa, il primo giugno del 2013, Palermo ha reso omaggio a Franco Scaldati. Lo ha fatto grazie al Teatro Biondo «sicilianizzato» di Roberto Alajmo che ha prodotto Lucio, affidandone la messa in scena a Franco Maresco. Se non strano quantomeno straordinario che si viri da quella sorta di motto «Palermo può attendere», e si offra uno spazio, lo Stabile addirittura, di quella città negli anni troppe volte ignorante dell’arte di Scaldati, e indifferente alle voci sgraziate che l’artista ha coccolato e amplificato tra i diroccati anfratti del quartiere dell’Albergheria, dove aveva trovato rifugio con il suo teatro di «incantamenti», come a volte lo definiva.

Dietro la messa in scena di Lucio c’è l’attenzione tenace di Umberto Cantone, profondo conoscitore dell’opera e dell’animo di Scaldati, ma soprattutto c’è Franco Maresco che con Daniele Ciprì ha creato un mondo dalle macerie del cinema e dell’umanità, sublimando l’orrido e facendo di Palermo la sineddoche di un Paese se non di un’intera civiltà. Chi altri avrebbe osato accostarsi ad un testo che il suo stesso autore non portava in scena dal 1989 ma da tempo leggeva dando voce ai diversi personaggi, creando un canto solitario, etereo – di cui ci resta l’eco nel cd che accompagna il libro di Valentina Valentini oramai irreperibile? Chi se non un cavaliere errante come Maresco avrebbe affrontato un testo come Lucio, in cui il protagonista svanisce per riaffiorare sotto altre forme, manco fosse quella Signorina Rosina narrata da un altro lirico palermitano che fu Antonio Pizzuto?

Lucio era «lariu», sciancato, jmmuruto (brutto, gobbo), era un innamorato (della luna e di Illuminata),era un alcolizzato, un vecchio libidinoso, un uccello fatato, un commediante. Forse.

Lucio, come candidamente recita il titolo, è fatto della fragile materia dei sogni (e del cinema), è una visione, un’allucinazione che si offre fin negli abissi del cielo e del mare ma solo a chi è disposto a «impazzire», ad abbandonarsi all’alterazione: che sia dovuta all’amore, alla droga, al desiderio o ai morsi della fame. Anche i ciechi vedono Lucio perché Lucio si sente (Pure l’uorbi virianu a Lucio … jera ‘na festa … poi, chiuìa l’occhi, e u sintìa) superando i limiti della percezione sensoriale. Finanche le «cose» si animano e beano alla luce di Lucio.

Così, questo (non) essere che si ritrova sempre altrove o altro si fa compagno di storpi miserabili (Pasquale e Crocefisso), di topi di pezza (Ziù e Zié), di angeli (Ancilù e Ancilà) e di marionette … dei «puri di cuore», avremmo detto quando ancora pensavamo di averlo, un cuore.

È in questi contrasti accecanti, nella lingua arcaulica di Scaldati che riecheggia come da profondi antri, nel continuo dissolversi di miraggi in questo deserto di luce che Maresco trova il suo habitat: le macerie di una Palermo che evoca e invoca maledicendola, filmandone quei relitti pesanti, archeologici, opere di fango attonite che la parola e la voce di Franco (Maresco) annichilivano con humor nero mentre la parola e la voce di Franco (Scaldati) riuscivano perfino a farne Pupe regine.

Ora non c’è più neanche Scaldati. Questo è il punto di partenza del lavoro di Maresco che con «il sarto» aveva collaborato più volte, fin dalla metà degli anni ’80, quando gli aveva prodotto un suo spettacolo e chiamandolo poi insieme a Mimmo Cuticchio, negli anni con Ciprì, per il magnifico Viva Palermo e Santa Rosalia messo in scena in Piazza Maggiore a Bologna nel 2005; e ancora nel 2010 a Roccella Jonica come lettore per Cinico Jazz, spettacolo che accompagnava la prima italiana di Io sono Tony Scott. Ma Scaldati ha anche attraversato il cinema di Ciprì e Maresco, da Il ritorno di Cagliostro alle diverse conversazioni filmate, nonché il dialogo «sasizza/munnizza», preso proprio dal Lucio, con Scaldati nelle vesti di Pasquale e la sua storica spalla, Gaspare Cucinella, in quelle di Crocefisso; sketch a cui ci rimanda il rudere ricostruito sul palco del Biondo.

È toccato proprio a lui – a chi altri sennò? – a Franco Maresco, l’ultimo figlio (il meno voluto, vien da dire parafrasando De André) di una Palermo che non c’è più, e forse non c’è mai stata, di mettere in scena l’assenza di Scaldati. Per farlo, lui che di riti funebri ha disseminato la sua opera, ha chiamato Melino Imparato, storico interprete del teatro di Scaldati, a cui ha affidato l’arduo compito di recitare le parti del Maestro, e Gino Carista per quelle di Cucinella, a sottolineare la vena comica che attraversa l’opera scaldatiana. Mancava un «sacerdote», un officiante sulla scena, e solo Mimmo Cuticchio, celebre cuntista, altro sopravvissuto alla catastrofe, poteva sopportare un ruolo che richiedesse tanta perizia quanta delicatezza. Il corpo di Cuticchio si mostra con geniale umiltà, ammantato di creature «di pezza», spogliato della sua possente voce e della sua arte agitata dall’epica, dallo scintillio fragoroso delle sciabole si fa «strumento» che rimanda ad un mondo separato e a noi invisibile: sacro.

È il «venir meno» di Cuticchio a spalancare l’abisso nero, il pozzo dei pazzi che è la scena in cui si svolge la recita in suffragio di Franco Scaldati. L’enorme cratere lasciato dalla sua scomparsa appare grazie alle note laconiche e magistrali di Salvatore Bonafede e al chirurgico disegno con le luci di Cristian Zucaro, puntellato dalle scenografie di Cesare Inzerillo e Nicola Sferruzza, oggi raro esempio di perfezionismo artigianale. Dal canto suo Maresco, siciliano colto, conosce i moniti dei miti, da Orfeo al Don Giovanni barocco, e sa di non poter far «arriviscire» i morti. Cinicamente cosciente che la sua è l’arte di un poeta che ha perso le parole, un musicista senza strumento, un cantante senza voce, dà inizio al teatro di Scaldati senza Scaldati.

Il mondo che dal ventre di Palermo Scaldati animava recitando i suoi versi scompare con lui. Siamo ancora più soli, ci specchiamo nel cupo deserto delle immagini ciniche di Ciprì e Maresco, inermi e ridicoli se ci immaginiamo con l’ombrello offerto nel finale di Lucio a proteggerci da questa tempesta cosmica che manda tutto a rotoli. Ai Rotoli.