Operaio pugliese con la vocazione da poeta, Tommaso Di Ciaula (1941-2021) è senz’altro uno dei più importanti scrittori «proletari» italiani e uno dei più longevi tra coloro che esordirono negli anni Sessanta e Settanta incoraggiati da un protagonismo operaio quanto mai vivace anche nell’ambito della cultura. Lo dimostra il ritorno in libreria della sua più nota opera in prosa, Tuta blu. Ire, ricordi e sogni di un operaio del sud apparsa nel 1978 come ventiseiesimo titolo dei «Franchi Narratori» di Feltrinelli, allora come oggi introdotta da una prefazione di Paolo Volponi. Non si tratta però di una mera ristampa. Le Edizioni Alegre, nella collana «Working Class» curata da Alberto Prunetti e con la collaborazione del figlio Davide Di Ciaula, hanno allestito per la nuova edizione (pp. 208, euro 16) un apparato bibliografico e una selezione di documenti e immagini provenienti dagli archivi privati dello scrittore, tra cui spiccano alcune lettere finora inedite di Volponi, Balestrini e Tagliaferri (questi ultimi due curatori per Feltrinelli di quella collezione riservata a racconti di vita e ad autorialità «irregolari»).

IN UNA LETTERA del 3 luglio 1976 (che si può leggere per intero qui accanto), un Volponi particolarmente affettuoso dichiara la sua disponibilità ad aiutare l’aspirante scrittore consigliandogli: «Non rifarti a schemi, e non lasciarti condizionare dal bello letterario: scrivi come nella lettera che mi hai mandato». Una delle caratteristiche di Tuta blu è in effetti la lingua volutamente ruvida e talvolta violenta che rivendica la propria distanza dalla cultura borghese, dalle convenzioni dell’espressione letteraria e dalla repressione di pulsioni erotiche a cui invece Di Ciaula dava voce senza falsi pudori.

Così, la scrittura si fa atto di rivolta, argine all’insinuarsi della repressione fin del profondo dell’inconscio: «La verità è che i padroni vogliono tenerci sempre sotto i piedi. I padroni vogliono rimangiarsi tutto ciò che abbiamo conquistato e che ci toccava di diritto. Intanto continuano a chiederci sacrifici: sacrifici in nome di che cosa? Non basta quanto ci hanno sfasciato il culo, a noi e a tutte le generazioni che ci hanno preceduto? I sacrifici li chiedano a chi sbafa a quattro ganasce, ai vari ladroni che fanno i presidenti in Italia, li chiedano alla ricca borghesia parassita che scialacquano i nostri soldi, il nostro sangue, il nostro sudore, la nostra intera vita, dall’inizio alla fine, la nostra esistenza totale. Notte e giorno, giorno e notte, entrano violentemente nelle nostre intimità, nei nostri sogni, nelle nostre emozioni».

MA L’ALTRO FILO ROSSO del racconto è il rimpianto per il mondo agreste abbandonato con l’ingresso in fabbrica, la campagna modugnese via via più deturpata dall’espansione edilizia e industriale (a dispetto del nome di «contrada Paradiso» dove sorge lo stabilimento che impiega il protagonista). Una nostalgia che si trasforma in sguardo capace di cogliere la resistenza del verde negli interstizi, o l’uso strumentale del mondo vegetale all’interno delle gerarchie di classe: «Nelle aiuole presso gli uffici dei dirigenti ci sono cespugli di fiori pregiati, fiori profumatissimi. Nei pressi dell’officina, invece, cactus e cespugli di spine, certi tipi di cespugli con le foglioline piccine e rossastre e spine corte e puntute».

Come aveva colto Volponi stesso nella sua prefazione: «L’urgenza che percorre tutto questo bellissimo libro come un vento incalza le parole una per una, ciascuna con il suo timbro e il suo peso, proprio come nei testi arcaici e popolari e anche nei dettati delle orazioni e degli sfoghi». Difatti, Di Ciaula sfruttò il buon successo del libro d’esordio per dare alle stampe la silloge di poesie L’odore della pioggia (Laterza 1980), di cui sul manifesto scrisse all’epoca Domenico Starnone, e partecipò anche al Festival di Castelporziano alternando prose poetiche e poesie prosastiche per tutta la sua carriera il cui apice è forse Acque sante, acque marce (Sellerio 1997), sgorgato da un immaginario tanto arcaico quanto intaccato dalla modernità del cemento e delle polluzioni industriali.

È in virtù del suo ritmo rutilante, del passo diaristico con accenti lirico-contemplativi che si alternano all’invettiva e alle note di colore dialettale che Tuta blu è diventato un caso letterario con traduzioni in Germania Est e Ovest, Francia, Unione Sovietica, Messico le cui copertine sono riprodotte nella nuova edizione, e trasposizioni teatrali in diverse lingue. Nel 1987 ha ispirato anche un film dal titolo Tommaso blu, con il primo ruolo da protagonista per un arruffatissimo Alessandro Haber. Il film fu realizzato su sollecitazione del sociologo dell’Università di Urbino Peter Kammerer che, dopo aver condotto con il regista Florian Furtwängler (1935-1992) un’inchiesta per la televisione tedesca sui lavoratori pugliesi immigrati in Germania che iniziavano a far ritorno nel loro paese di origine, lo sceneggiò insieme a quest’ultimo. La pellicola vide la collaborazione diretta di Di Ciaula nelle riprese oltre che un suo cameo in una scena di fabbrica.

LA PELLICOLA fu presentata al Festival di Taormina ma non ebbe una vera e propria distribuzione italiana. Oggi alle 21 sarà proiettata nella sala del Museo del Cinema di Torino nella copia 35mm conservata dalla Friedrich-Wilhelm-Murnau-Stiftung di Wiesbaden e nell’ambito dei Job Film Days (fino al 2 ottobre) con la collaborazione del Goethe Institut. Alla proiezione seguirà una presentazione in anteprima del libro e un incontro a cui parteciperà il figlio dello scrittore Davide Di Ciaula.

In occasione di questo festival dedicato alle rappresentazioni del mondo del lavoro, presso la torinese Galleria Febo e Dafne (via Vanchiglia 16) sono inoltre esposte fino al 2 ottobre opere grafiche di Antonio Pronostico, comprese le copertine da lui firmate per la collana «Working Class» delle edizioni Alegre.

 

Milano, 3 luglio ’76
Una lettera

Carissimo Tommaso Di Ciaula,
il tuo libro e la tua lettera mi hanno fatto molto piacere. Ti sono vicino affettuosamente e ti dico che potresti scrivere un romanzo importante proprio sui calci che ti hanno dato: cioè sulla discriminazione in fabbrica, e anche nel tempo libero, dai servi devoti più o meno pallavolisti. Io ho fatto il capo del personale, sì; ma non alla Fiat, alla Olivetti e per farlo non ho mai dovuto sorridere «di merda», mentire, ingannare: allora credevo nel progresso industriale, nella cultura della fabbrica come esemplare, quasi incontaminata ma alla fine mi è toccato uscire e proprio perché non ho voluto servire senza criticare e senza davvero innovare e senza pregiudizi, e senza schemi fissi contro l’intelligenza, la passione, la voglia di lavorare di tutti. Alla Fiat sono stato poco e come consulente… e anche da lì me ne sono andato. Credo ancora nell’industria come moltiplicatore di beni; ma credo che debba essere prima liberata dagli attuali poteri e poi guidata da un prioritario disegno politico.
Se scriverai il romanzo, mandamelo e io sinceramente cercherò di aiutarti. Non rifarti a schemi, e non lasciarti condizionare dal bello letterario: scrivi come nella lettera che mi hai mandato.

Auguri e ancora un abbraccio dal tuo Paolo Volponi