Tradurre la purezza del cinema astratto in grande spettacolo hollywoodiano è una sfida che pochissimi autori contemporanei sanno osare (Walter Hill, Fincher, Michael Bay, i registi Pixar…) ma è la scommessa su cui Michael Mann punta tutto il suo ultimo lavoro, Blackhat. Arrivato nelle sale americane a gennaio, poche settimane dopo che la Sony era stata messa in ginocchio da un gruppo di hacker del sudest asiatico, e da oggi anche in Italia, il nuovo thriller dell’autore di Collateral dichiara il suo dinsinteresse per qualsiasi forma convenzionale di topicità dalla prima sequenza – la «soggettiva» di un virus che si fa largo, di circuito in circuito, fino a colpire il sistema di raffreddamento di una centrale nucleare di Hong Kong. Tutta punti di luce che divorano il nero a velocità supersonica, intercalata da immagini quasi altrettanto astratte dalla sede di un mercato azionario, è un rush d’adrenalina che rimanda più al cinema visio/sensoriale di Ernie Gehr o Ken Jacobs che a un grosso thriller avventuroso targato Universal Pictures.

In realtà, la storia di Blackhat non ha molto di avveniristico – anzi, è quasi una trama da western classico, solo giocata su una Frontiera del terzo millennio in cui tutto è interconnesso e nessuno e niente sono al sicuro. A partire dalla struttura drammatica tradizionale, che Mann (come già in Miami Vice) colloca in totale secondo piano rispetto al resto.
Quello che gli preme, in questo film sconclusionato, ambiziosissimo e di strana urgenza, è catturare la rappresentazione plastica della luce (come in Collateral anche le scene migliori di Blackhat sono ambientate di notte), del tempo, della velocità, dell’inafferrabilità e del pericolo che governano il nuovo (dis)ordine mondiale del nostro tempo. Ossessivo, enciclopedico, ricercatore dei suoi soggetti, Mann ha lavorato al film quasi tre anni, studiando il labirintico Risiko di cyberwar e cyberterrorismo in Usa, Cina, Iran, Arabia Saudita…., i diversi modi del sabotaggio digitale. Ma, rispetto per esempio a un suo titolo più lineare come The Insider o anche a Strade violente (il film di Mann che, insieme a Miami Vice, più ricorda Blackhat), quella conoscenza e quell’informazione qui sono così compresse da risultare indecifrabili, al limite dell’implosione.

A confronto con materiale simile a questo, Nolan (un autore concettuale come Mann ma molto meno «visivo» di lui) avrebbe fermato l’azione e fatto dialogare i personaggi per spiegare a parole quello che stava succedendo; in Blackhat l’esposizione che conta veramente è quasi tutta nella forma. È lì che Mann mette la sua eccitazione. Dialoghi, snodi narrativi e persino i protagonisti sono opachi, inanimati al suo confronto. Come ombre.

Veicolo di questa spericolata cyberavventura sono un gruppo di poliziotti internazionali (tra cui Viola Davis e Leehom Wang, da Lussuria, Seduzione e tradimento) e un celebre hacker (Chris Hemsworth/ Thor) che all’inizio del film, come Jena Plissken in 1997: Fuga da New York, viene temporaneamente scarcerato a fin di bene, e cioè per identificare un altro hacker che, servendosi dei codici che lui stesso aveva scritto, sta mettendo a repentaglio il mondo.

Tratteggiato in uno zig zag tra diversi continenti, in una realtà globale in cui frontiere, fusi orari, giurisdizioni governative e persino ideologie hanno perso di senso, Blackhat è una caccia all’uomo che più incorporea di così non si può, e sul cui sfondo «il nemico» ha le dimensioni di un pixel. Cappello bianco (l’hacker momentaneamente opzionato dalla polizia) e cappello nero (il cybercriminale invisibile che stanno inseguendo) si fronteggiano, rimbalzando di schermo in schermo, passando per una cava in Malesia, una processione di monaci in rosso e i terminali della National Security Administration (in una bella scena Hemsworth riesce e introdursi nel sistema della NSA con un trucchetto da ragazzi), con doverosi omaggi al cinema d’azione urbano, teso e spettacolare, di Hong Kong e a Blade Runner (la metropoli notturna fotografata come i microprocessori di un computer).

Ma Mann non è un autore «di genere», o tantomeno innamorato della fantascienza. Come Thief, che seguiva nei minimi dettagli i furti elaborati dello scassinatore James Caan, Blackhat è un film procedurale, affascinato dal process che sta osservando, il cybercrime, e dai migliori al mondo che lo sanno praticare. In questo contesto, la storia d’amore tra Hemsworth e la sorella dell’amico poliziotto cinese, è ancora più implausibile e narrativamente inutile dell’amour fou tra Colin Farrell e Gong Li in Miami Vice.

Ma dietro alle superfici fredde e all’ossessione ipertecnologica che foderano il cinema di Michael Mann c’è sempre un trasporto romantico. Ed è quel trasporto, quell’energia sublime di cinema, che salva e rende appassionante anche un film sbalestrato come questo.