Ogni scrittore decifra secondo le proprie poetiche la realtà, l’esperienza, la memoria, le pieghe insondabili dell’identità. A Clarice Lispector (1920–1977), la più importante scrittrice brasiliana del Novecento, raramente interessano le grandi narrazioni, gli eventi importanti della Storia. Acqua viva e Un soffio di vita, opere liminari scritte poco prima di morire, si reggono su trame quasi evanescenti, prodotto di un universo personale complesso, frantumato, profondissimo, nutrito dal dialogo costante fra gli elementi minimi – talvolta perfino insignificanti – di cui è ampiamente costellata la nostra esistenza e la dimensione abissale dell’inconscio. Spesso le biografie dei suoi personaggi sono alterate da epifanie improvvise, come per esempio lo sguardo di un animale, un rumore captato in lontananza, o la consapevolezza struggente della vita segreta di una pianta da appartamento. Ai suoi esordi e per parte della sua vita, lo stigma dell’illeggibilità ha parzialmente influenzato la fortuna delle sue opere, oggi unanimemente riconosciute come autentici capolavori, pur non intaccando la sua aura misteriosa di mito vivente.

LEGGERE CLARICE, va detto, significa vedere trascesi gli elementari meccanismi di ricezione: le parole che dispiega sulla pagina sfidano (eccitano, invitano, respingono, assecondano, invalidano) la nostra capacità di comprenderle. La vertigine che ne consegue, tuttavia, non pare lambire la scrittrice, la quale afferma con disarmante candore: «Ermetica? No, io mi capisco. (Tranne un racconto, L’uovo e la gallina, quello non lo capisco)».
Non a caso, il grande critico brasiliano Antonio Candido ha sempre ribadito quanto in Clarice l’elaborazione del testo fosse l’elemento decisivo attraverso cui raggiungere la pienezza della scrittura letteraria, quanto la sua comprensione non avesse in realtà bisogno di giustificarsi attraverso la realtà sociale o personale (da cui, canonicamente, scaturiscono i temi). Eppure, per quanto possa sembrare paradossale, in Un soffio di vita è proprio la vicenda esistenziale della scrittrice a premere sul testo: la solitudine, la paura, la malattia, la morte incombente.

Tanto Acqua Viva quanto Un soffio di vita fanno parte di quei romanzi in grado di scardinare la griglia teorica, strutturata, che si è andata formando proprio attorno al romanzo come genere. Il genere borghese per eccellenza, dove la solida adesione fra la materia diegetica e la vita si è sempre rivelata a noi grazie a quel pilastro dalla solidità soltanto apparente che chiamiamo trama. Questo, tuttavia, non significa che non siano individuabili alcuni raccordi tematici. In Acqua viva, ad esempio, ci guida la frustrazione della voce narrante che appartiene a una donna (la soglia dell’autofiction è molto vicina) e che si rivolge, in un monologo puntellato di divagazioni, ad un amante che non ne comprende le doti di pittrice.

IL TERRITORIO è quello intimo della confessione, dell’idiosincrasia, della ricerca dell’antidoto (e forse anche dell’amuleto): fiori, piante e animali (il suo bestiario è pressoché enciclopedico) costituiscono i simboli privilegiati per questa operazione. Altri spunti decisamente ricorrenti sono la vista obliqua, lo specchio, il neutro di un’entità indefinita consegnato alla ricorrenza del pronome inglese it, la fugacità del tempo, la consapevolezza della morte imminente, le false speranze (scrive in Un soffio di vita: «Ho così tanta voglia di essere dozzinale e un po’ volgare e di dire: la speranza è l’ultima a morire»), le infinite possibilità delle vite non realizzate, quel fatale «ciò che saremmo stati se non fossimo stati ciò che siamo» che tanto rimanda al noto assioma proposto da Hélène Cixous: Clarice era ciò che sarebbe stato Kafka se fosse stata femmina, o se Rilke fosse stato una brasiliana ebrea nata in Ucraina, o se Rimbaud fosse stato madre e fosse giunto ai cinquant’anni, o se Heidegger avesse potuto smettere di essere tedesco.

Clarice Lispector aveva un modo di scrivere che eccedeva quella che viene considerata una scrittura canonica. Non è raro, infatti, imbattersi in scomodi neologismi o in un uso volutamente scorretto delle forme grammaticali e sintattiche. Trappole, sfide, vicoli ciechi per il lavoro del traduttore. Claire Varin, una studiosa canadese della sua opera, indica nel suo presunto plurilinguismo la causa del suo stile non canonico. La condizione di immigrati della sua famiglia genera le difficoltà della scrittrice ad apprendere il portoghese: Clarice nasce nella cittadina ucraina di Tchetchelnik nel 1920 in una famiglia di ebrei in fuga dai pogrom.

MENO DI DUE ANNI DOPO, i Lispector si imbarcano da Amburgo per il Brasile. A Maceió, dove giungono nel 1922, la scrittrice smette di chiamarsi Haia e le viene consegnato, oltre a un nuovo paese e una nuova lingua, un nuovo nome: Clarice. Due nomi, due lingue: la prima, lontana e presente in forme invisibili, affine a quella che Hölderlin, in una poesia bellissima (Die Stille) chiama Mutterzartlichkeit, «muta pedagogia materna». E una lingua dell’apprendistato: il portoghese del Brasile, che diventa una conquista. In una cronaca giornalistica, scrittura a cui si dedicò per anni, Clarice descrive il suo amore per la lingua portoghese soffermandosi sul senso di lotta che in lei suscita il cercare di dominarla, come si trattasse di una lingua raccolta in un processo di formazione ancora incompiuto.

L’atto di scrivere e di forgiare la nuova lingua è analogo al tentativo di domare un cavallo: «Questa è una confessione d’amore: io amo la lingua portoghese. Non è una lingua facile. (…) A volte si imbizzarrisce per una frase imprevedibile. Mi piace maneggiarla, come mi piaceva stare in groppa a un cavallo guidandolo per le redini, a volte lentamente, a volte spronandolo al galoppo».

IN QUESTE OPERE della maturità Clarice torna spesso sulla questione della «vista obliqua» facendo di essa una sorta poetica dello sguardo e un modo di percepire gli strati meno superficiali della realtà, un filtro per vedere l’invisibile che ha la consistenza di delicati fili di ragnatela. Lo stesso, forse, può valere per la lingua, costituendo un possibile viatico alle mie traduzioni: tentare di assecondare questa percezione deformata potrebbe forse aiutare a superare alcuni limiti altrimenti impossibili da affrontare. È la stessa Clarice ad ammonirci: quello sguardo non è che un alibi, una strategia per mettersi al riparo dalla geometria delle cose. «L’obliquo della vita» come sortilegio, come unico modo per accettarne le contraddizioni.

COME SI PUÒ FACILMENTE intuire, dunque, in termini circensi tradurre Clarice Lispector significa compiere un salto mortale: capire il significato della sua lingua brasiliana; capire il significato della sua lingua brasiliana nella sua scrittura. Inevitabilmente, alcuni pezzi di un arsenale dell’inesprimibile restano impigliati in una ragnatela tessuta fra questi due luoghi. In una lettera a Egelmann, Wittgenstein coglie un aspetto per me fondamentale per la resa di questa scrittrice nella mia lingua: «quando non ci si sforza di esprimere l’inesprimibile, non va perduto nulla. Anzi, l’inesprimibile è contenuto – nella sua inesprimibilità – in ciò che viene espresso».

Per comprendere il linguaggio di Clarice e le acrobazie di voce e corpo, respiro e pensiero, movimento e sensualità che richiede l’esperienza di tradurlo basterebbero (per modo di dire!) i versi di Haroldo de Campos, sodale di Ungaretti, poeta, fondatore del Concretismo con il fratello Augusto e a sua volta eccelso traduttore (a lui si devono memorabili ‘transcreazioni’ dantesche in portoghese): «linguaggio: mia / coscienza (un parallelogramma / di forze non una semplice / equazione ad una / sola / incognita): questo / linguaggio si fa aria / e corda vocale / la mano che intrica il filo del / traliccio – il fiato / che unisce questa a quella / voce: il punto / di torsione / lavoro diafano ma che / si compie (completa) con i cinque sensi».

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Dalla dittatura alla lingua delle favelas

Dopo «Acqua viva» e «Un soffio di vita», anche quest’ultimo in uscita per Adelphi, Roberto Francavilla, docente di Letteratura portoghese e brasiliana all’Università di Genova, sta traducendo per Feltrinelli tutti i racconti di Clarice Lispector. Su questi libri, sulla figura della scrittrice e sulla sua opera dialogherà con Emanuele Trevi al festival Babel (13-16 settembre), a Bellinzona, il prossimo sabato (qui proponiamo un estratto del suo intervento). Quest’anno l’ospite della rassegna è il Brasile: l’attenzione è tutta concentrata sulle letterature marginali e le lingue seconde. Ci sarà la scrittrice turca Asli Erdogan per parlare della repressione militare, la scrittrice e attivista Adelaide Ivánova che si è occupata anche di femminicidio, verrà tracciato il profilo di Mira Schendel. Saranno poi raccontate le indagini antropologiche dello scrittore Bernardo Carvalho, la «Caduta del cielo» dello sciamano Davi Kopenawa, le sperimentazioni letterarie dall’Amazzonia e dalle favelas raccolte da Eduardo Jorge de Oliveira e Edimilson de Almeida Pereira.