È un vero e proprio viaggio nel continente della speranza quello che Ernst Bloch ci presenta con la sua opera monumentale Il principio speranza (Das Prinzip Hoffnung), apparsa tra il 1954 e il 1959 (e iniziata nel periodo dell’esilio americano, alla fine degli anni Trenta), introdotta al pubblico italiano nel 1994 per i tipi di Garzanti, e ora opportunamente riproposta dalla casa editrice Mimesis (a cura di Remo Bodei, traduzione dal tedesco di Enrico De Angelis e Tomaso Cavallo). Un’esplorazione di oltre millecinquecento pagine scandita su tre tappe fondamentali, o anche articolata nei tre volumi dai titoli: Sogni ad occhi aperti; Per un mondo migliore; Immagini di desiderio.

A QUESTE TRE STAZIONI tematiche corrispondono altrettanti nodi concettuali: il primo è dedicato al plesso società-politica; il secondo alla questione della grande arte in senso ampio (e quindi alla pittura, alla musica, ma anche alla filosofia); e infine il terzo punto che concerne la sfida ingaggiata dalla speranza contro la morte (e per quest’ultimo il bersaglio polemico di Bloch risponde al nome di Martin Heidegger, e alla sua concezione dell’essere-per-la-morte).
Se queste sono le tre direttrici principali della speranza, i sentieri tracciati nel volume sono svariati, e indagano ad ampio raggio tutte le accezioni della speranza – non trascurando le accuse che sono state rivolte nella storia della cultura a questo concetto, spesso accusato di «essere vuoto». Il cammino di Bloch incrocia sia le manifestazioni più alte del Prinzip Hoffnung sia le «occasioni quotidiane» del suo presentarsi, e, nell’attraversare i campi dell’umano, si avventura anche nei territori, poco esplorati dalla filosofia accademica: i cosiddetti «sogni a buon mercato». Si tratta di quelle prospettive di una better life che fanno presa nella società di massa (l’esperienza statunitense deve aver influenzato queste pagine blochiane), e che continuano a plasmare i dispositivi pubblicitari.

A ILLUMINARE il percorso blochiano è l’idea che la speranza sia un «principio di movimento», un tendere a qualcosa, un «andare verso», e quindi non un atteggiamento passivo (qual è invece l’angoscia heideggeriana), ma piuttosto una disposizione concretamente attiva, progettuale. Bloch si richiama alla immagine della docta spes scolpita da Andrea Pisano nel Battistero di Firenze, in cui l’immagine femminile che la personifica tende le braccia verso l’alto, come per afferrare qualcosa.
Altrove Bloch la paragona a una sorta di binocolo particolare, a raggi infrarossi o ultravioletti, che permette all’occhio umano di vedere-attraverso la situazione di fatto (l’apparenza), le possibili dinamiche di svolta (la tendenza in latenza). È quanto accade – come spiega Remo Bodei nella preziosa introduzione a questo testo – nei processi artistici del montage surrealista o della pittura metafisica, in cui il «vuoto» degli spazi viene riempito di presenze solo apparentemente lontane e perturbanti.

CIÒ SIGNIFICA anche che la speranza, al centro della indagine filosofica di Bloch, paradossalmente non riguarda tanto il futuro quanto il presente. Un’espressione blochiana molto significativa è quella dell’«opacità dell’attimo vissuto», con cui ci si riferisce al fatto che la nostra esistenza è costellata di intermittenze oscure che aspirano a una maggiore chiarezza, che i nostri progetti sono innervati di anticipazioni, di «non-ancora». È all’opera, in altre parole, l’enigma che sigla la nostra essenza, l’humanum absconditum, il volto celato. Di fatto, la vita corrisponde per Bloch a un percorso in direzione dell’incontro con sé stessi, a un progetto di ritrovamento del proprio sé in una dimensione comunitaria (e qui la lezione di Hegel è tangibile anche se contaminata dalla presenza di Novalis), in quel «noi» che è anche il precipitato più autentico dell’opera d’arte.
Non è un caso allora se in diversi luoghi della sua opera Bloch paragona la speranza a una «fuga musicale», a una polifonia che si svolge in diversi luoghi e tempi ma che, in questo Multiversum stratificato, cerca l’unisono. L’importanza di questa ricerca è forse il monito più forte del capolavoro di Bloch, ma anche il messaggio più inattuale in un mondo che sembra aver rinunciato definitivamente alla speranza. Ma, rovesciando i termini della questione e sulla scorta di una celebre sentenza di Walter Benjamin, si potrebbe allora dire che proprio per questo «mondo senza speranza» ci è dato il Principio speranza.