La storia della scrittura e della interpretazione del dramma che ha per protagonista la figlia di Erodiade è racchiusa in un breve percorso: Salome fu scritta in francese da Oscar Wilde per Sarah Bernhardt nel 1891, pubblicata nel 1894, con le illustrazioni di Aubrey Beardsley, e rappresentata a Parigi nel 1896. Richard Strauss mise in musica la traduzione in tedesco di Hedwig Lachmann, e in quanto Salome, senza l’accento finale, venne rappresentata a Dresda nel 1905. Ambiguamente e perversamente art nouveau nella scrittura di Wilde, diventa selvaggio ritratto della patologia di un’epoca quando si fa spettacolo sonoro straussiano. Le messe in scena seguono questa storia e la riproducono. Nella storia recente, sono del 1992 la Salome mediorientale di Luc Bondy a Salisburgo, e quella espressionistica di Harry Kupfer ad Amsterdam, mentre una versione decostruzionista del dramma venne di nuovo allestita a Salisburgo nel 2018 da Romeo Castellucci. C’è perfino un bellissimo film sperimentale di Al Pacino, Wilde Salomé, del 2010, da non perdere.

NON A CASO, quella che ci arriva da Francoforte, messa in scena al Teatro dell’Opera di Roma dal regista australiano Barrie Kosky, è una versione della Salome narcisistica, isolata, sintomo dell’individualismo attuale: il regista la imposta, nel programma di sala, e nella rappresentazione, come l’annuncio, anzi già l’esplosione del moderno. Se finora il dramma di Salome aveva funzionato da sintomo di un’isteria collettiva, tragica rappresentazione di una malattia sociale – come pensava lo stesso Strauss – Kosky vede invece nell’opera un ritratto perfetto dell’isolamento in cui oggi ciascuno vive la propria inadeguatezza, il proprio dolore, le proprie pulsioni frustrate.
Non ci sono scene, il sipario non si apre nemmeno. La luce della luna, un occhio di bue, insegue per tutta la durata dello spettacolo i personaggi, isolando di volta in volta chi agisce. L’effetto di straniamento è totale, sconvolgente. Come risolverà Kosky – ci si chiede – la spettacolarità della danza dei sette veli? Salome, una straordinaria Lise Lindstrom, dalla voce un po’ stridula, che si addice all’acerbità del personaggio, sta seduta a gambe larghe su una sorta di cunicolo: estrae dall’inguine un velo lunghissimo, interminabile, sembrano le sue viscere, in un progressivo svuotamento di sé stessa. Nient’altro.

FORSE POCO, dal punto di vista della teatralità, ma il significato è terrificante. La morte di Salome – come quella di Isolde, nella famosa scena del Tristano messo in scena da Wieland Wagner – si risolve nel restare immobile al centro della scena: al posto della propria testa ha la maschera del capo mozzato di Jochanaan. Marc Albrecht risponde, musicalmente, con una interpretazione infuocata, tesissima, della partitura. Si perde forse qualche sfumatura, ma lo struggimento amoroso di Salome dopo il bacio sulla bocca della testa mozzata del profeta è di una dolcezza estenuata, mortale appunto. Solo chi la guarda vede l’orrore, lei no: innamorata, fino alla morte, lei sente solo la dolcezza e l’amarezza, del bacio. “Each man kills the thing he loves” (ogni uomo uccide ciò che ama), scrive Wilde nella ballata di Reading. Gli altri, il contorno, il contesto, sono niente, scompaiono nel buio. Fuori dell’occhio di bue. E sono perfetti, tutti: l’Erode di John Daszak, l’Erodiade di Katarina Dalayman, lo Jochanaan di Nicholas Brownlee, il Narraboth di Joel Prieto e gli altri. Fino al 16 marzo.