Sono molte le donne scomparse della letteratura italiana. Cancellate dal canone, cadute dalla memoria, escluse dalle antologie scolastiche: una rimozione costante, che continua a verificarsi, e che a tanti non sembra un problema. Autrici di prim’ordine, figure di spicco di un’epoca, lette, premiate, riconosciute, e poi improvvisamente svanite, come finite in un buco della storia.
Sono quattro le mani, appassionate e competenti, che in questi anni hanno riportato alla luce l’esistenza e i versi di Nella Nobili: quelle di Marie-José Tramuta, responsabile della prima edizione antologica in Francia, e quelle di Maria Grazia Calandrone, cui si deve l’uscita della raccolta Ho camminato nel mondo con l’anima aperta (Solferino, pp. 276, euro 17). È grazie a queste due pubblicazioni che possiamo finalmente incontrare la poeta bolognese, originale, inattesa, dolorosa-mente indipendente, che alle soglie degli anni ’50 scriveva di fabbrica e amori omosessuali – temi certo non raccomandabili, se non scandalosi, per una donna dell’epoca.

QUELLA DI NELLA NOBILI è la storia di una persona diversa, diversa da tutti, eppure in ascolto costante di quei tutti che fanno il mondo. È una storia che comincia nel 1926, a Bologna, nel rione popolare di Pontevecchio. È qui che nasce, figlia di una sarta e di un muratore. Sono anni particolarmente difficili per chi ha poco o niente. Anni in cui tutti in famiglia devono darsi da fare, anche i più piccoli. Anche Nella. Che nel gennaio del 1940, a soli quattordici anni, entra in fabbrica.
«Ti ho perduto adolescenza», scriverà in un verso asciutto, qualche anno più tardi, per ricordare quella frattura. «Bisogna lavorare perché loro hanno lavorato/ I miei Genitori i miei Nonni. I miei avi…/ Ma a che serve tornare così indietro. Bisogna/ Lavorare perché loro hanno lavorato»: sono versi diretti, duri, descrittivi, animati dal desiderio di raccontare la cosa per quella che è. E capita spesso che nell’esistenza di Nella Nobili «la cosa per quella che è» sia dolorosamente assiomatica: «Bisogna/ lavorare perché loro hanno lavorato» – una condanna già scritta, autoevidente. Una storia che sembra destinata a ripetersi nel tempo, uguale a se stessa.

EPPURE, qualcosa di diverso per Nella c’è. È qualcosa che le cresce dentro da quando è bambina: una specie di musica – così l’avrebbe descritta, più avanti, in un’intervista. È la musica della poesia, che ha incontrato sui banchi di scuola, e che da allora non l’ha mai abbandonata. È per questo che, pur lavorando da operaia, Nella impiega tutto il tempo che le resta a studiare da autodidatta la letteratura, le lingue, l’arte. È in questo tempo rubato alla stanchezza e alla notte, che nasce il suo primo canzoniere d’amore. Il titolo? Poesie per Rossana: semplice. La cosa per quella che è.

«Rossana, io vengo da un’altra terra/ Dove il sole ferisce a morte per il suo calore/ Dove nei campi infuria un’estate perfetta/ E l’erba allegra canta come una bionda ragazza»: è questa la lingua di Nella Nobili, che viene da «un’altra terra», ma parla – perché lo vuole – in un modo comprensibile a tutti. Proprio come i lirici greci, che con occhio limpido nominavano il mondo, Nella Nobili descrive il desiderio amoroso con immagini di assoluto nitore: «Come un sospiro di sole/ Indugia su un verde prato –/ Sento nascere il tuo desiderio/ Ai lati della mia figura.// E come i fili d’erba/ A uno a uno si accendono – / Io luminosa divento».
Non ci vuole molto perché il mondo artistico e intellettuale, che timidamente ha cominciato a frequentare, si accorga di lei. Arriva l’accoglienza del pittore Giorgio Morandi, che la legge e le dice: «A me sembri un poeta vero». Arrivano gli inviti a casa di Renata Viganò, dove capitava d’incontrare, fra gli altri, Pasolini e Roversi. E arriva il primo articolo su un quotidiano, il Giornale della Sera, a firma del direttore, che entusiasta intesse le lodi della «poetessa operaia».

NELLA NOBILI lascia Bologna per Roma, dove pubblica il suo primo libro. L’accoglienza è straordinaria: non solo viene selezionata per il Premio Viareggio, ma si parla di lei ovunque. Su Il Messaggero, L’Avanti, L’Unità, dove a salutarla come genio poetico è Sibilla Aleramo. Nella è ammessa, anzi desiderata, alle riunioni degli «Amici della domenica», organizzate da Maria Bellonci, che ha da poco fondato il premio Strega. Eppure qualcosa non la fa star bene, qualcosa la delude e la allontana. L’etichetta di «poetessa operaia» le si sta incollando addosso, sempre più. E Nella non vuole essere esposta nei salotti come un «fenomeno», l’esponente di una categoria, la proletaria che scrive, il piccolo miracolo. Così se ne va in Francia, dove trascorre anni difficili.

Ma poi, da indipendente vera qual è, s’inventa un mestiere: unendo le competenze tecnico-manuali acquisite in fabbrica e il proprio gusto artistico, Nella inizia a produrre gioielli decorati con piccole miniature di celebri opere d’arte, di cui smalta a freddo le riproduzioni. È un successo: «Nella Nobili Créations», così recita il marchio, che le ha disegnato il grande Jean Cocteau, conosciuto a Parigi assieme ad altri artisti.

GLI ANNI PASSANO, la vita è cambiata: finalmente possiede una casa, tempo libero per scrivere e studiare, una compagna, Edith Zha, con cui pubblica il libro d’inchiesta Les femmes et l’amour homosexuel, per la storica casa editrice Hachette. E arriva anche un nuovo volume di poesie, questa volta in francese, La jeune fille à l’usine («La ragazzina in fabbrica»).
È la sua opera più matura, in cui mette a fuoco con maggiore sicurezza il tono e lo stile: esatto, concreto, duro e insieme trasparente. La jeune fille à l’usine non piacque a Simone de Beauvoir, cui Nella lo aveva inviato con stima e speranza. Le disse che la sua scrittura era «maladroite», maldestra, goffa. E che nella vita o si scrive o si fa altro: la scrittura è un mestiere vero, non un passatempo. Non l’aveva capita, dall’alto dei suoi privilegi, non aveva capito che Nella aveva vissuto per scrivere, ma per vivere aveva dovuto lavorare.

FORSE UN’ALTRA SIMONE l’avrebbe capita, quella Simone che nel 1934 aveva scritto il Journal d’usine, il suo Diario di fabbrica. Simone Weil, che a 25 anni, pur vivendo nell’agio, aveva scelto di lasciare tutto ed entrare in fabbrica, per comprendere la condizione operaia – comprenderla con il corpo, non solo con la mente. Lei avrebbe capito, perché l’aveva vissuto e ne aveva scritto: le bruciature sulle dita, la pressa che annienta, i dolori alle ginocchia, i mal di testa violenti, le camminate di notte, fino alla Senna, per riuscire a respirare. L’avrebbe capita, nonostante le diverse condizioni di partenza, perché viveva in totale ascolto del mondo, proprio come Nella.

Che cosa vuol dire vivere con l’anima aperta? Nella Nobili lo dice bene, in una poesia del ’64: è come attraversare una strada sentendo di entrare in ogni vita, animata e inanimata. Nei «muri cadenti», negli «stracci dei mendicanti», in una «ragazza piegata a metà», in una vecchia «che vende i giornali». «Entro perfino nella pelle di quella povera capra/ Che tre Zingari fanno saltare/ Tutte le sere alle 6»: sì, perfino dentro la pelle della capra. Questo significa avere l’anima aperta.

NEGLI ANNI ’80 Nella Nobili comincia a soffrire di violente emicranie, forse per l’inalazione di gas e smalti tossici cui il lavoro l’ha esposta a lungo, forse per quell’apertura dell’anima, da cui entra ogni cosa, a volte tutto il dolore del mondo. Provata dall’uso massiccio di un barbiturico, in quegli anni prescritto e usato con poca cognizione, pone fine alla sua vita il 18 febbraio del 1985.
Ma l’anima aperta non si chiude. Perché Nella l’ha lasciata sulla pagina, e altre donne hanno avuto cura di indirizzarci fino a lì. «E quella bambina interrotta si mise a cantare/ L’acqua e il vento la gloria e il dolore/ La bellezza d’allora», aveva scritto. Sta a noi porgere orecchio a quel canto. Ascoltare come in noi continua.

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LA PRIMA ANTOLOGIA ITALIANA PRESENTATA A SOME PREFER CAKE

Domani alle 18, al Centro delle donne di Bologna, Samanta Picciaiola dialoga con Monica Pietrangeli a partire dal libro di Nella Nobili, «Ho camminato nel mondo con l’anima aperta» (a cura di Maria Grazia Calandrone). La 12ma edizione di «Some Prefer Cake», festival di cinema lesbico si concluderà sabato e si può visitare online qui: openddb.it