Una vedova bellissima, inseguita da un giudice che vuole sposarla; una splendida donna incontrata durante un viaggio in diligenza; un teschio all’interno del quale viene scoperta un’insolita arma del delitto, e cioè un chiodo piantato nel cranio della vittima dalla sua introvabile moglie: tre donne che sono poi una sola, e che il giudice innamorato, dopo aver risolto il mistero, consegnerà alla giustizia… Con questo racconto intitolato El clavo, Pedro Antonio de Alarcón (autore del celebre Il cappello a tre punte) inaugurò nel 1853 la letteratura poliziesca spagnola, anche se a coltivarla con più convinzione fu, agli inizi del ’900, Emilia Pardo Bazán, scrittrice inarrestabile e attenta lettrice di Conan Doyle, che attraverso quattro operine ben congegnate affrontò il «genere» con piena consapevolezza, anticipò i tempi creando un dandy-detective alla Philo Vance e criticò la sottomissione alla morale vittoriana e la scarsa definizione psicologica del poliziesco inglese.

LE INCURSIONI di Alarcón e Pardo Bazán sembrano tuttavia sottolineare un’assenza, piuttosto che l’inizio di un nuovo filone; mentre in Francia o in Inghilterra i lettori potevano contare sin dalla metà del XIX su una schiera di autori legati al poliziesco, in Spagna la letteratura «criminale» ebbe a lungo vita difficile, finché, a partire dagli anni ’70, cominciò a recuperare con vertiginosa rapidità il tempo perduto, affermandosi come una delle migliori d’Europa: Manuel Vázquez Montalbán, Eduardo Mendoza, Francisco González Ledesma, Alicia Giménez-Bartlett, sono conosciuti e tradotti ovunque, e molti fra loro possiedono anche la caratteristica di essere autorevoli autori mainstream, com’è abbastanza comune nel loro paese, dove perfino il sofisticatissimo ed ermetico Juan Benet si azzardò, a suo tempo, a scrivere un giallo.

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QUESTA ECCEZIONALE fioritura ovviamente non nasceva nel vuoto: l’avevano preceduta l’importazione di autori stranieri e, soprattutto, la diffusione di collane popolari (regina del settore era l’editorial Bruguera), alimentate da autori nascosti sotto pseudonimi stranieri, che sceglievano ambientazioni esotiche, quasi sempre anglosassoni. E oltre a queste anonime «macchine da storie» c’erano, rari ma presenti, anche autori indubitabilmente gialli che si firmavano con il proprio nome e scrivevano di delitti e crimini spagnoli, come il poliziotto franchista Tomás Salvador o il multiforme catalano Manuel de Pedrolo – Atmosphere ha recuperato e tradotto nel 2011 il suo romanzo Seconda origine -, del quale ricorre quest’anno il centenario della nascita: un anniversario connotato dalla scoperta di un nascondiglio pieno di manoscritti, appunti e inediti, dove lo scrittore-uomo di teatro-editore custodiva, negli anni della dittatura, i materiali più «sovversivi».

DEL VULCANICO de Pedrolo , oltre che di molti altri autori e libri e fumetti rigorosamente «neri» (anzi gialli, per noi italiani), si parlerà in questi giorni a Barcellona durante la dodicesima edizione di BCNegra, un festival nato in memoria e nel segno di Manuel Vázquez Montalbán, che fino al 4 febbraio riempirà la città di incontri, tavole rotonde, mostre, memorie del passato e scommesse sul futuro, discussioni su temi di attualità e presentazione di novità editoriali. A dirigerlo è Carlos Zanón, un bravo autore di gialli – l’ultimo dei quali, Taxi, meriterebbe una traduzione – che di recente si è visto affidare l’incarico di ridare vita a Pepe Carvalho, il disincantato detective di Vázquez Montalbán (un’operazione rischiosa quanto discutibile, ma ormai comune, alla quale l’editoria sembra sempre più affezionata).

COME RIUSCIRÀ il sequel carvalhiano non è dato saperlo, ma che con BCNegra Zanón abbia avuto la mano felice è già evidente: inaugurato ieri con l’apertura di una mostra dedicata a Jordi Bernet, autore di fumetti noir famoso anche in Italia (il suo Torpedo 1936 è un classico), il festival dedica alla graphic novel pure una succosa tavola rotonda tra sceneggiatori e disegnatori, e soprattutto conta su presenze importanti, come James Ellroy, che il primo di febbraio riceverà il premio Pepe Carvalho, Don Winslow, Andrei Kurkov, l’editore Jorge Herralde, Marta Sanz (la più raffinata narratrice spagnola del momento, che si è concessa anche lei un divertissement giallo, protagonista uno stilizzato detective omosessuale), i veterani e insuperati Andreu Martín, Juan Madrid e Julián Ibáñez, Lorenzo Silva, un ottimo e intelligente artigiano pubblicato in Italia da Passigli e Guanda, e, ovviamente, la barcellonese Gimenez-Bartlett.
Tra un omaggio postumo a Jaume Fuster, pioniere del giallo, editore dal gran fiuto e membro del collettivo barcellonese Ofélia Dracs (ne facevano parte, tra gli altri, Maria Antonia Oliver, creatrice di una delle prime donne detective del poliziesco spagnolo, oltre a Quim Monzò, Carme Riera, Jaume Cabré) nato negli anni ’80 proprio per valorizzare la letteratura di genere, e un ricordo di Jim Thompson e Jean Patrick Manchette, sfilano autori venuti da tutta Europa – due gli italiani, Massimo Carlotto ed Elena Varvello – ma anche dall’Africa e dall’America latina, tra i quali va segnalato in particolare Kike Ferreri, autore di Da lontano sembrano mosche, appena pubblicato in Italia da Feltrinelli.
A colpire non è tanto la qualità degli autori, sempre piuttosto buona, o il loro considerevole numero, o la quantità di opere presentate, ma la capacità di BCNegra di tentare approcci nuovi e dare spazio a ipotesi di sperimentazione, a innesti insoliti che permettano di immaginare un diverso futuro del poliziesco, nella consapevolezza che tanta planetaria e sovrabbondanza possa, prima o poi, farlo «morire di successo», nonostante la fedeltà più che notoria del suo pubblico.

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Disegni di Helios Gómez nella sua cella, la Capella Gitana

UNA DELLE SORPRESE più insolite del festival è riservata agli incontri dell’ultima giornata: BCNegra, infatti, ha scelto di tenerli in un luogo che, come qualcuno ha notato con giubilo, è ancora escluso dalle mappe turistiche, ossia il Centro Penitenciario de Hombres, meglio noto come La Modelo, una prigione costruita tra il 1881 e il 1904 su progetto di due grandi architetti modernisti, Salvador Vinyals e Josep Domenech: un panopticon colossale dal quale si dipartono sei imponenti gallerie, dove i prigionieri comuni convissero con gli operai anarchici, comunisti e socialisti arrestati durante le rivolte della Settimana Tragica del 1909, o durante i molti scioperi repressi sanguinosamente, prima e dopo il franchismo.
Il regime rinchiuse nella Modelo, in condizioni durissime, i repubblicani superstiti, gli oppositori, gli omosessuali, tutti coloro che considerava nemici, pericolosi o semplicemente diversi. Uno di loro, Helios Gómez, pittore e illustratore, membro dell’avanguardia barcellonese, repubblicano e sindacalista, affrescò le pareti della sua cella (ora chiamata Cappella Gitana) e il restauro ha riportato alla luce almeno le tracce dei suoi disegni. Un altro, l’anarchico Salvador Puig Antich, nel 1974 fu, proprio a La Modelo, l’ultimo giustiziato con la garrota.
Chiuso nel 2017, 113 anni dopo la sua inaugurazione, in parte restaurato nel corso dell’ultimo anno, immerso in un silenzio impressionante e in attesa di un’ancora vaga destinazione ad attività culturali e sociali, domenica, per un giorno intero, La Modelo ospiterà dibattiti e discussioni su immaginarie nefandezze e omicidi di carta.