Quando quarantadue anni fa, e a quarantacinque anni d’età, Fabrizia Ramondino venne al mondo come scrittrice, anche chi la conosceva bene restò spiazzato. «Per molti amici il fatto che io ho scritto Althénopis è stata una sorpresa. A Napoli ero conosciuta, soprattutto negli anni ’60 e ’70, come una militante politica», racconta lei stessa in un testo oggi compreso nell’antologia Modi di sopravvivere Gli scritti politici di Fabrizia Ramondino (a cura di Mirella Armiero, (e/o pp. 230, euro 14,00). E aggiunge che «se allora avessi detto che scrivevo delle poesie, la cosa sarebbe stata presa malissimo».

Prima militante poi scrittrice, intellettuale. Percorso inverso a quello che è abituale oggi, quando scrittori e scrittrici, dopo una o due prove, facilmente scendono – o salgono – sul terreno della militanza politica. Beninteso, della militanza secondo la formula che oggi conquista attenzione: quella del commento politico, meglio se rissoso, meglio se in 140 caratteri.

La biografia pesa. Quella di Ramondino, che nei suoi vent’anni cominciò con il lavoro volontario di insegnamento alle bambine e ai bambini poveri per poi dare una forma organizzata al suo impegno, prima con l’associazione Risveglio Napoli e poi passando alla militanza politica con il Centro di coordinamento campano, si rintraccia in tutti i suoi scritti. Non si trova tesi che non sia fondata sulla conoscenza approfondita dei soggetti di indagine. L’inchiesta è la traccia più profonda nella scrittura saggistica di Ramondino e prima ancora era stata per lei e per le sue compagne e compagni un metodo di azione politica.

La pubblicazione di Althénopis per Einaudi, prima opera di finzione, era stata in realtà preceduta da quella per Feltrinelli, nel 1977, di Napoli, I disoccupati organizzati, un lavoro destinato a segnare per molti anni la sinistra politica e sindacale, napoletana e non. La vera e propria scoperta di un «proletariato marginale» – al lavoro nell’intrico del centro storico per marchi noti nel mondo (soprattutto guanti e scarpe) come terminale nascosto di un ramificato e illegale subappalto, diverso dal sottoproletariato dell’analisi marxista e più vicino invece al moderno lavoro povero – cambiò per sempre la ricerca, ma soprattutto l’azione politica di base.

E la cambiò per anni, ne ho fatto esperienza anche io quando, vent’anni dopo quel libro, giovane cronista a Napoli del tutto ignaro sia delle inchieste di Ramondino sia della categoria «proletariato marginale», fui indirizzato da alcuni vecchi compagni a «farmi un giro» negli scantinati di Pomigliano d’Arco. Trovai famiglie che lavoravano in casa ai cavi elettrici destinati alle automobili prodotte nella grande fabbrica Fiat, un’organizzazione ancora identica a quella descritta nel libro di Ramondino sui disoccupati napoletani.

«A fondamento del nostro lavoro avevamo posto l’inchiesta», scriveva l’autrice nel 2004 in un articolo per il manifesto (non incluso in questa raccolta, che ne comprende invece un altro, più recente). Riassumendo le caratteristiche fondamentali di quel lavoro giornalistico e politico degli anni Settanta, elencava: «1) Le esperienze sono vissute in prima persona o, se indirette, le inchieste sono svolte con il coinvolgimento dei protagonisti, che quindi non diventano mai oggetto. 2) Il coinvolgimento porta a un processo di trasformazione reciproca. 3) Il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, la “linea rossa” e la “linea nera”, non sono mai nettamente distribuite da una parte o dall’altra».

Un po’ consiglio ai giovani cronisti, un po’ testimonianza da dietro le quinte, questo brano di ricordi si può accostare a un altro tratto da un articolo del 1981 (incluso nella raccolta) con il quale l’autrice presentava il suo primo romanzo: «In Althénopis ci sono tutte le mie esperienze», perché il lavoro della romanziera non era «altra cosa» da quello dell’autrice delle inchieste: «Questa attività dello scrivere è un momento di separazione: è un processo doloroso dello sviluppo mentale, è come se dovessi continuamente recedere dei cordoni ombelicali. Da una parte io lo vivo come una conquista, dall’altra, però, come una perdita, nel senso che va a scapito della comunicazione diretta». La fatica della scrittura, una pratica comunque militante.

Napoli, la città di oggi che scoppia per effetto di un turismo di rapina che in pochi mesi moltiplica il numero dei residenti per quattro o cinque, avrebbe assai bisogno di quel genere di lavoro di inchiesta. Da condurre addirittura negli stessi vicoli del centro storico e dei quartieri spagnoli dove i «proletari marginali» sono adesso i lavoratori poveri della ristorazione, del delivery, del piccolo commercio, delle pulizie nelle case in affitto; ugualmente a nero, ugualmente sfruttati.

È una tentazione semplice quella di leggere con gli occhi dell’attualità scritti di cinquant’anni fa. Andrebbe rifiutata. Ma non ci si riesce: questo libro arriva nella stessa estate in cui i quotidiani napoletani pubblicano le foto delle spiagge urbane, inquinate eppure affollatissime: «Boom di bagnanti a San Giovanni a Teduccio».

Proprio da lì, da Vigliena, partiva Ramondino nel suo scritto del 1973 contro la cause capitalistiche del colera, adesso in questa antologia. Nelle foto di oggi, i cartelli sugli arenili affollati, «Bagni elioterapici», sono così invecchiati che viene da pensare siano proprio gli stessi che la scrittrice citava cinquant’anni fa, come prova dell’ipocrisia del sistema: non si dovrebbe fare il bagno ma lo fanno tutti.

La straordinaria capacità di Fabrizia Ramondino di contestualizzare i problemi tenendo insieme il piccolo e il grande, il locale e il mondiale, emerge anche in un articolo per il Mattino del 2003 nel quale l’autrice legge insieme un episodio avvenuto davanti ai suoi occhi in una piazza del paese dove era andata a vivere, Itri – un vecchio riesce a far fare la pace a due bambini che si prendono a sassate – con un’iniziativa delle Nazioni unite in Nigeria. Per concludere che «una cultura di pace va costruita sempre a partire dal basso… dal quotidiano esercizio della politica». A proposito di discorsi attuali.