Come la campagna pubblicitaria piacevolmente retro, anche Solo: A Star Wars Story, il secondo spinoff , dopo Rogue One, dal ciclo epico stellare ideato da George Lucas fa un effetto un po’ old fashioned. Quasi analogico, nonostante l’immanenza del Cgi.

Si sente la mano esperta di un veterano del racconto come Ron Howard, autore di una generazione diversa –più vicina alla New Hollywood di Lucas e del co-sceneggiatore Lawrence Kasdan- da quella di Phil Lord e Christopher Miller, i registi originali del film (e del molto sopravvalutato The Lego Movie) che Howard ha rimpiazzato in corso d’opera.

È stata una mossa, quella della produttrice Kathleen Kennedy, che controlla Star Wars più come un pacchetto azionario che come una proprietà creativa (e aveva già virtualmente spodestato il regista di Rogue One, Gareth Edwards), che ha gettato un’ombra sinistra sulla gestione della franchise e un giudizio preventivo sulla qualità di questo film.

In realtà, filtrato dallo sguardo del regista di Splash, Apollo 13 e Willow (scritto da Lucas), Solo ha il ritmo e la grazia di un’avventura più tradizionale, meno cinicamente calcolata di Star Wars: Il risveglio della forza, meno concitata di Gli ultimi Jedi e meno disomogenea di Rogue One.

A partire dalla prima grande sequenza d’azione poco dopo l’inizio: una rapina dal cielo a un treno futuribile in mezzo alle montagne chiaramente disegnata con grande conoscenza e amore per il western (Howard ne ha diretto almeno uno, molto atipico, The Missing) e coreografata con eleganza sicura.

È il momento più forte del film, e quello in cui ti affezioni ai personaggi – Han (Alden Ehrenreich, un Solo giovane, ribelle e idealista, meno iconoclasta e segnato di quello di Harrison Ford), Beckett (Woody Harrelson) e Val (Thandie Newton, ottima).

Il mondo di Solo è una nebbia di avventurieri, banditi, cavalieri solitari che vivono di espedienti; di popolazioni soffocate dai soprusi dell’Impero, interi pianeti fatti di rottami, e di fronti in cui si combatte in trincea e nel fango come nella Prima guerra mondiale.

In questa galassia selvatica e disperata, in cui riconosciamo i riflessi della (nostra) Storia quanto quelli della fantascienza, la luce della Forza non si intravede ancora. Nemmeno parlare di principesse.

Il meglio che ci è dato in quel campo è Qi’ra (Emilia Clarke), di cui Han è un po’ innamorato, ma che rimane un personaggio ambiguo. Una survivor anche lei, costretta a sottostare al potere di Dryden Vos (Paul Bettany, sfregiato).

Dalle montagne spazzate dalla bufera, il film chiude in un deserto sulla riva del mare, dove sta la raffineria del coassio, il prezioso metallo sulla cui conquista è ancorata la storia.

Dedicato alla gioventù di Han Solo, battezzato così – scopriamo – da un ufficiale di dogana intergalattica perché non ha famiglia, il film mette in scena anche il primo incontro con Chewbacca (a cui Solo viene dato in pasto in una botola) e la prima volta che Solo pilota il Millennium Falcon, la navicella di Lando Calrissian (Donald Glover, pansessuale – era Billy Dee Williams, ribaldo simpatico e molto mascolino in L’impero colpisce ancora e Il ritorno dello Jedi).

Più vicino ai serial anni trenta che avevano ispirato il primo Star Wars (1977), che alle avanguardistiche e cupe declinazioni che Lucas ne ha fatto prima di cedere la sua multimiliardaria ossessione personale – insieme alla franchise – alla Disney, Solo non ha nulla di particolarmente originale o visionario ma evita gli estenuanti cliché del videogame, ti riporta a un contatto diretto meno «meta» con i personaggi e potrebbe inaugurare uno sviluppo narrativo più rilassato, e il ritorno a una vena più innocente.

Per ora, è probabilmente il titolo migliore del «nuovo corso». Come sempre con Star Wars, però bisogna vedere cosa diranno i fan.