Mario Martone, che con il suo film Nostalgia in questi giorni rappresenta l’Italia agli Oscar, ha ideato la regia della Fedora (1898) di Umberto Giordano in scena in questi giorni al Teatro alla Scala nel 2019, mentre era a San Pietroburgo per una rassegna dei suoi film, dove ha incontrato Valery Gergiev, con il quale ha progettato di fare un’opera al Mariinskij. Il Covid ha fatto saltare la prima milanese di Fedora di giugno 2020, la guerra in Ucraina la collaborazione con il teatro russo. L’opera in scena, dunque letteralmente una sopravvissuta, di tutte le incursioni scaligere di Martone nel repertorio verista (penso alle meravigliose Cavalleria rusticana e Pagliacci del 2011, alla graziosa La cena delle beffe del 2016 e alla classica Andrea Chénier del 2017, entrambe dello stesso Giordano), è quella che convince meno.

IL POLPETTONE in chiave politico-sentimentale del libretto che Arturo Colautti ricava dall’omonimo dramma di Victorien Sardou (del quale due anni dopo avviverà sulle scene liriche italiane anche la somigliantissima Tosca) è stato trasposto in un presente piuttosto astratto grazie alle scene di Margherita Palli e ai costumi di Ursula Patzak, nel quale cui prendono forma a più riprese citazioni da due capolavori di René Magritte, L’assassino minacciato e Gli amanti: la gabbia prospettica del primo quadro viene «spacchettata» consequenzialmente ma con efficacia calante lungo tutta l’opera, le teste velate del secondo quadro, mentre funzionano come metafora dell’uomo e della donna che si amano senza conoscersi davvero, sono scollegate dal resto dell’azione, così come l’apparizione di figuranti a illustrare il passato raccontato dagli amanti Fedora e Loris che si svelano. La facilità di questi trucchi si assomma poi alla genericità dell’interpretazione degli attori, forse conseguenza di un troppo scarso numero di prove, producendo uno spettacolo bello ma a tratti spaesato.

Marco Armiliato dirige con mano ferma e predilige il senso complessivo dell’azione

ASSISTERE a una messa in scena di Fedora, così come della consorella Tosca, ci ricorda sempre la concomitanza incredibile tra gli ultimi fuochi dell’opera verista e i primordi del cinema muto, in cui subito si travaseranno le meccaniche del racconto e l’enfasi attoriale, oltre che le stesse musiche del repertorio verista. Il dispositivo ante litteram della soap opera, che possiamo anche intellettualizzare con Martone come una «concatenazione di eventi che sembra il gioco di un dio maligno, o un Sogno di mezza estate al negativo», ci colpisce ancora oggi grazie soprattutto alla partitura di Giordano, genuino melodista e a tratti raffinato armonista, capace di costruire una drammaturgia sonora che si avvale di un «montaggio» del tutto assimilabile a quello di un film: l’azione scorre implacabile, tra rivelazioni e colpi di scena, grazie a musiche che riescono con la stessa abilità ad alzare e ad abbassare il voltaggio dinamico-sentimentale della vicenda. Marco Armiliato, profondo conoscitore del repertorio italiano al suo debutto scaligero, dirige con mano ferma prediligendo il senso complessivo dell’azione alla cesellatura delle preziosità armoniche. Il cast, di primordine, vede una Sonya Yoncheva (Fedora) intensa e sensuale, penetrante in acuto e a tratti stimbrata nel registro grave, e un Roberto Alagna (Ipanov), finalmente tornato alla Scala dopo le turbolenze del passato, in vero stato di grazia. Peccato solo che nei duetti dei protagonisti diversi attacchi siano stati sbagliati: colpa del suggeritore o ancora delle poche prove insieme? Bravissimi anche Serena Gamberoni (Olga), cristallina e sinuosa, e George Petean (De Sirieux), mediatore attento della storia. Repliche fino al 3 novembre.