Più che un libro è un grande affresco che mostra un percorso, piuttosto complesso, per mettere in forma una teoria dello spazio. La ripubblicazione, dopo più di 40 anni, di La produzione dello spazio di Henri Lefebvre (Pgreco Edizioni, 2018, 25 euro) non ci riporta solo ai dibattiti di allora, ma ci permette di ricostruire la genealogia di una parte significativa dell’analisi urbana dei decenni successivi. David Harvey, Neil Brenner, Manuel Castells fino agli anni ’80, per citarne solo alcuni, hanno avuto in modo più o meno esplicito questo testo come costante punto di riferimento. Dopo Il diritto alla città e La Rivoluzione urbana, pubblicati a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, in cui si portava alla luce, in un periodo di grandi sommovimenti sociali, la relazione tra lotte sociali e spazio urbano, Lefebvre ha voluto andare alla radice della questione. E lo ha fatto dando vita, per 400 pagine, a una sorta di corpo a corpo teorico innanzitutto con Marx e, in seconda battuta, con Hegel e Nietzsche. Non più e non solo la città e la metropoli, ma lo spazio come luogo, strumento e rapporto costitutivo del modo di produzione capitalistico.

FATTI VELOCEMENTE I CONTI con la concezione dello spazio di Kant, Lefebvre individua due premesse fondamentali e un metodo di quella che indica come una possibile nuova «scienza dello spazio». Lo spazio implica, contiene e dissimula dei rapporti sociali, non è una cosa ma un insieme di relazioni. È anche, esso stesso, un rapporto sociale intrinseco ai rapporti di proprietà e legato alle forze produttive in quanto prodotto e mezzo di produzione. Seconda premessa: il tempo è inscritto nello spazio e la lotta di classe si legge soprattutto nello spazio. Anzi è l’unico ostacolo che impedisce allo «spazio astratto» di estendersi in ogni dove cancellando le differenze.

A questo punto Lefebvre procede per analogie: lo spazio come forza produttiva che entra in contraddizione con i rapporti di produzione e lo spazio astratto contrastato dalla lotta di classe come il lavoro sans phrase di Marx. Ma per passare dalle analogie alla teoria è quantomeno richiesto un metodo. Lefebvre si rende conto che l’operazione è più complessa del previsto. Cercando nella propria cassetta degli attrezzi la scelta cade sull’aggiornamento, tenendo però presente l’Introduzione di Marx ai Grundrisse, del vecchio testo Logique formelle, logique dialectique.

Il metodo è definito come «regressivo-progressivo» in cui la produzione dello spazio elevata a «concetto e linguaggio, reagisce sul passato e vi scopre aspetti e momenti sconosciuti» e di conseguenza si presenta in maniera diversa anche il processo che va da questo passato al momento attuale. Ciò nonostante questo metodo non è esente dal rischio, secondo Lefebvre presente anche in Marx, che la parte «regressiva» oscuri la parte «progressiva». Per evitare che ciò accada, la produzione dello spazio deve operare come «concetto teorico e realtà pratica indissolubilmente legati», in modo da esplicitarsi come una verità «in sé e per sé» compiuta e tuttavia relativa. In sostanza Lefebvre estrapola e generalizza, dell’Introduzione di Marx, il passaggio in cui si sostiene che l’anatomia dell’uomo è una chiave per l’anatomia della scimmia, letto con un sottofondo hegeliano nonché con qualche eco che rinvia alla seconda Considerazione Inattuale di Nietzsche. Tenere insieme le premesse con questo metodo diventa per Lefebvre un’impresa ardua, tanto è vero che gli scarti, gli scostamenti, le digressioni diventano la parte più innovativa del libro che, ancora oggi, sono in grado di suscitare riflessioni e suggestioni.

UNA DI QUESTE RIGUARDA lo spazio sociale che si produce e riproduce in connessione, e non dentro la contraddizione, con le forze produttive e i rapporti di produzione. Non è riducibile agli oggetti e ai soggetti che contiene né alla loro eventuale somma perché è un sistema di relazioni. E la forma dello spazio sociale è data dalla simultaneità dell’incontro di tutto ciò che è prodotto dalla natura e dalla società sia nella loro cooperazione sia nel loro conflitto. Uno spazio sociale e urbano non è l’inventario delle cose che contiene, un discorso e nemmeno una rappresentazione. Lo spazio è un rapporto sociale perché i rapporti sociali di produzione vi si inscrivono e allo stesso tempo lo producono.

Ma, una volta raggiunta questa definizione, Lefebvre opera un ulteriore scarto ritornando al metodo prima illustrato. È lo spazio che regola il tempo perché il movimento delle merci, del denaro presuppongono luoghi di produzione e vie di trasporto. Lo spazio, nella fattispecie lo spazio urbano, ridiventa un mero supporto dei rapporti sociali, i quali diventano reali solo nello spazio. Lo spazio è essenzialmente di nuovo un contenitore. In questo caso, nel tentativo di mantenere una certa coerenza nella sua esposizione, Lefebvre si arrampica su una supposta connessione tra «supporto-rapporto» che richiede sia analisi specifiche sia implicazioni che investono uno «spazio-analisi» e una «ritmanalisi», cioè la ricerca dei ritmi della trasformazione dello spazio. Detto in altri termini, diventa una sorta di meta-filosofia dello spazio.

Ancora una volta il metodo ingabbia e neutralizza le sue stesse premesse. Sembra quasi che lungo il testo agisca un potente Super-io che riporta l’autore all’ordine quando la riflessione imbocca strade non preventivate e a tale proposito gli esempi possono essere molti. Ma invece sono proprio le riflessioni e le intuizioni di Lefebvre che seguono in modo imprevisto le sue premesse che, accantonando il metodo, appaiono ancora oggi in grado di fornire indicazioni utili per l’analisi della metropoli contemporanea. Dire che lo spazio urbano è innanzitutto un rapporto sociale prima di essere un luogo o un mezzo della produzione sociale significa porsi all’altezza delle attuali catene della valorizzazione capitalistica. La produzione dello spazio diventa così un processo che articola «una pratica spaziale», per usare le definizioni di Lefebvre, che ingloba produzione e riproduzione sociale, una «rappresentazione dello spazio» legata ai rapporti di produzione e al loro continuo rivoluzionamento e degli «spazi di rappresentazione» visti come la dimensione simbolica che produce immaginari e comportamenti nello spazio urbano. Dove la conoscenza dello spazio urbano si dà come critica dello spazio urbano.

IL LIBRO DI LEFEBVRE è continuamente attraversato da oscillazioni, da definizioni provvisorie che vengono in gran parte stravolte con lo sviluppo delle argomentazioni. Se l’invocazione di una rivoluzione dello spazio, che necessariamente deve comprendere una rivoluzione urbana, sembra più dettata dal contesto storico in cui è stato scritto, la possibilità dar vita a dei processi di soggettivazione con l’attivazione di «contro-spazi» è più che una suggestione. In fondo, la metropoli contemporanea non è riducibile, se mai lo è stata, al solo assetto urbano fatto di edifici, vie di trasporto e flussi di informazioni, è un processo spazio-temporale che riproduce incessantemente le condizioni di dominio e sfruttamento della produzione sociale.