Da più di un anno, a Roma, è impossibile attraversare il viale del Mandrione. Una barriera di jersey in cemento impedisce il passaggio delle automobili. Nei luoghi delle baracche pasoliniane, sulla strada che costeggia l’acquedotto Alessandrino e che porta dal Tuscolano a ridosso della mura della città storica non si può più transitare. Non è stata istituita un’area pedonale, tutt’altro: semplicemente una strada importantissima dal punto di vista storico, urbanistico, viario e letterario di Roma è abbandonata a se stessa, per motivi che non sono chiari. Così, nella città che ospita le incursioni mediatiche di gruppi neofascisti che aizzano la guerra tra i poveri delle periferie, uno spazio pubblico, decisivo per raccordare diversi luoghi e mettere in comunicazione la periferia abbandonata al centro turistizzato, viene negato nel silenzio.

È UNA STORIA di incuria e inefficienza, ma ancora più preoccupante sono proprio la rassegnazione e la normalità con le quale migliaia di persone che attraversano quel quadrante di città hanno preso atto da un giorno all’altro che il Mandrione non esiste più. Contemplano lo sbarramento all’inizio della strada, tutt’al più formulano vaghissime ipotesi sui tempi della riapertura.
É solo uno spaccato recente di una capitale che è diventato impossibile raccontare. Tanto che Enzo Scandurra, dopo quarant’anni di riconosciuta attività da urbanista, ha dovuto abbracciare il genere distopico per riuscire a trovare il senso delle cose che minacciano il vivere comune e le nostre storie collettive a cui diamo il nome di «città». Ne è venuto fuori Exit Roma (Castelvecchi, euro 17,50, pp. 142) un romanzo apocalittico su una città collassata su stessa, isolata dal resto del mondo a causa di un’epidemia e il disastro climatico. Roma non è nuova ad ambientazioni del genere. Già nel 1964 Ubaldo Ragona aveva scelto i paesaggi lunari e futuristici dell’Eur per girare L’ultimo uomo sulla terra, horror fantascientifico tratto dal celebre racconto di Richard Matheson interpretato da Vincent Price che anticipava per certi versi il filone sull’invasione zombie. Nel libro di Scandurra non c’è bisogno di ricorrere all’allegoria degli zombie: la minaccia arriva dagli umani imbarbariti di fronte alla devastazione e in cerca di sopravvivenza a scapito del prossimo.

SE IL DISEGNO della città ideale ha sempre accompagnato le utopie, il collasso della città eterna è ideale per raccontare una distopia, per descrivere il lento inaridirsi delle relazioni e anche la costituzione di comunità che cerchino di resistere e persino di fondare su basi nuove la civiltà. Scandurra non scrive un apologo di belle speranze e non scioglie affatto le contraddizioni, il che rende inquieta e affascinante la storia. Ciò non accade negli oscuri quartieri bene dei Parioli di corso Trieste, avviene nella periferia di Tor Bella Monaca: qui la vita riprende ma in comunità chiuse e perimetrate, se ci fosse un sequel di Exit Roma da questa contraddizione potrebbe ripartire.

Ci sono i luoghi, dunque. Ci sono gli uomini e le donne che li abitano. E c’è il tema della genitorialità come spinta verso il futuro. La tradizionale metafora, recentemente ripresa in chiave restauratrice, del ritrovarsi del padre come ricostruzione dell’autorità perduta, viene catapultata ne mezzo dell’apocalisse.
Scandurra si conferma sottile e sensibile conoscitore dell’animo umano e disegna con abilità una specie di Psycho rovesciato: non spariscono i genitori, nella città di macerie e fango di Exit Roma. Semmai diventano fantasmatici i figli. E la possibilità di rifondare il mondo che avevamo conosciuto, mentre tutto cade a pezzi, appare come un miraggio.