All’inizio ci sono una Stanza nera e delle Scarpette rosse. Una voce, monologo interiore di ragazza, di un femminile sussurrato oltre il tempo si dichiara «prigioniera» in quella stanza, una scatola, forse una macchina da presa, un apparecchio fotografico, la camera oscura delle meraviglie e del desiderio? È in bilico, «fuori dal tempo … come quando si fa l’amore».Dice: «Alcune parti di me non possono essere svelate nemmeno dal tuo occhio fotografico… O possedute. Rimangono nascoste. Fuori campo. Non è quello che desideri ?».

Le scarpe rosse hanno le ali, forse è un libro di fiabe per bambini, nel «black box» le dita dell’amante hanno guanti di lattice, le parole sono pericolose come le immagini. Un’altra ragazza, sogni proibiti, massacri reciproci, un epitaffio, la fuga. Nelle illustrazioni la ragazza ha le calzette a righe fin sopra il ginocchio, lo sguardo triste, il rimmel che sbafa tra una lacrima, l’abbigliamento sadomaso che la sdoppia in un’altra da sé, come lei, diversa. The Black Room and the Red Shoes viene definito dal suo autore, Peter Whitehead, una «graphic novel», parole, immagini, primi piani in bianco e nero di corpi sospesi in una visione. Fantasia o incubo? Tre racconti brevissimi la cui forma unisce poesia, monologo, quasi un script – che somiglia pure agli appunti per una ripetizione teatrale – in un volume dedicato a «Jean Lucifer Godard», di cui il regista ha tradotto in inglese lo script di  Alphaville (1966), e che nelle sue traiettorie artistiche è quasi una (provocatoria) ossessione. Un oggetto speciale (pubblicato da Hathor Publishing Uk) che lascia affiorare l’universo di Whitehead, i suoi detour, macchine desideranti che spingono l’immaginario – corpo cuore eros – agli estremi: Terrorism considered as One of the Fine Arts ovvero quel gusto di rischiare non riconciliato che interroga la propria materia per metterla in discussione a cui Whitehead non ha mai rinunciato dai suoi esordi, negli anni Sessanta, fino a oggi.

È il tocco speciale che rende unico questo ragazzo di ottant’anni, classe operaia – era figlio di un idraulico – che grazie ai fondi speciali post-seconda guerra mondiale in Gran Bretagna studia nelle migliori scuole, fisica all’università di Cambridge, pittura alla Slade School of Art. E poi? La sua intuizione è di essere «al posto giusto nel momento giusto» sintonizzato coi suoi tempi e con le loro richieste di cambiamento.

Eccolo dunque filmare il reading alla Royal Albert Hall l’11 giugno 1965, dove per la prima volta si incontrano i poeti Beat americani e inglesi, sul palco davanti a settemila persona si alternano Allen Ginsberg, Lawrence Ferlinghetti, Gregory Corso, Adrian Mitchell. Whitehead riprende la controcultura in 16 millimetri con una Eclair, Wholly Communion è cinema diretto che nasce da uno sguardo capace di catturare il sentimento dell’attimo, di entrare nello spazio emozionale scivolando tra le parole dei poeti. Nel ’68 è alla Columbia University di New York con gli studenti in rivolta, dopo l’assassinio di Luther King (The Fall), filma gli Stones, Eric Burden, inventa il prototipo del videoclip; poi sparisce, in Arabia Saudita, a allevare falchi per un principe arabo. E quando torna è sempre Terrorism considered as One of the Fine Arts, libro e film, una spy story del contemporaneo tra le strade di Vienna…

Nelle pagine di questa trilogia, in una scrittura che polverizza le barriere come accade con le sue immagini, miscelando dolcezza e passion, intimità e segreti, anche i più dolorosi, è sempre irriverente e pronto a mettersi in gioco; lo ritroviamo tra i molti specchi, tra i volti di ragazza, tra quei «fantasmi» che ci riportano a Daddy: a Bedtime Story (1973, il suo film con Niki de Saint Phalle, forse per quelle calzette a righe maliziose sopra il ginocchio sulle cosce scoperte. Una fanciulla immagina sesso e creature della notte nella camiciola da notte bianca passata di donna in donna, ragazza sola quella di As Mummies in the mummy-cloth are wound… (dedicato a Dido) che fugge mentre la casa dorme per farsi cullare dall’erba bagnata fantasticando sulla disperazione della Madre, la felicità della sorella di fronte al suo gesto sbagliato, il padre ignaro perché assente di quella sua avventura…

E infine  Portrait of the Artist as a Doll Junkie, col bacio finale appassionato di due ragazze dopo coltelli porno e peni di plastica. Il femminile e le sue variazioni che Whitehead riesce a narrare in una corrispondenza quasi indicibile, e nella sua rappresentazione (iconografia?) dal proprio punto di vista maschile. Ma è la natura stessa della sua opera fatta di sintesi e di fusione, in cui il «genere» non esiste come il gender: maschile e femminile danzano insieme, terreno mutante e esplosivo di sensibilità.