L’Africa è fredda è uno dei titoli, annotato e poi cancellato su una delle copie dattiloscritte, pensati da Hemingway per Verdi colline d’Africa. Rimanda a quello altrettanto geniale escogitato da Goffredo Parise per il suo viaggio in Giappone: L’eleganza è frigida.
È una delle tante notizie che si apprendono dall’edizione di Green Hills of Africa curata da Sean Hemingway, nipote di Ernest, per Scribner nel 2015. Sean Hemingway stampa assieme al libro del nonno il diario del safari tenuto da sua moglie, Pauline Pfeiffer Hemingway, e una scelta di appunti, brani e abbozzi eliminati al momento di andare in stampa, nel 1935. Adesso Paolo Simonetti ha curato la versione italiana di questa importante edizione, arricchendola di un bel saggio e servendosi della storica traduzione di Attilio Bertolucci e Alberto Rossi (Oscar Mondadori, pp. 294, euro 14,00): è una edizione economica di grande livello in un periodo di tagli dei costi che raramente permette di aggiornare le ristampe dei classici servendosi dei migliori lavori che si stampano all’estero. Peccato per la copertina doppia che sembra il dépliant di un villaggio vacanza, ma il libro all’interno, con il suo contorno di documenti, è davvero interessante e capace di suscitare emozioni.
Ma perché Verdi colline d’Africa è un esperimento così importante, che oggi ha da dirci qualcosa di addirittura più comprensibile di quanto non lo fosse al momento della pubblicazione, quando non riscosse alcun tipo di successo, né di critica né di lettori ? Una prima risposta sta già nella Nota dell’autore, dichiarazione di intenti talmente assurda, almeno per come è formulata, da farci sospettare che qualcosa di molto ambizioso, in effetti, stesse così a cuore a Hemingway da impedirgli di spiegarsi meglio. Rileggiamo: «L’autore ha cercato di scrivere un libro completamente vero per vedere se il profilo di una regione e l’esempio di un mese di vita descritti con fedeltà possono competere con un’opera di fantasia». Solo l’adorabile Hemingway poteva concepire il dilemma tra due scelte letterarie (fiction e non-fiction, diremmo oggi) come una «competizione». Del resto, è questo il modo in cui pensava il mondo, come una specie di eterna e incerta gara da affrontare con qualche svantaggio, tale da rendere più preziosa e meritata la vittoria. Dove c’è una gara, c’è anche un criterio, una misura di paragone, e in questa gara fra due generi di prosa l’unico metro è quello della noia, o dell’efficacia del racconto.

La Great Rift Valley dell’Africa orientale è ancora oggi uno dei paesaggi più stupefacenti che si possano osservare, e la caccia grossa, con qualunque sentimento personale la valutiamo, era di per sé un repertorio narrativo tutt’altro che trascurabile. Ma al momento di dare forma all’esperienza, a decidere dell’interesse di qualunque argomento è il tipo particolare di soggettività che si manifesta di fronte a quel paesaggio, e nel vivo di quell’azione.
È qui, nella strategia che sceglie per rappresentare se stesso, che Hemingway gioca tutta la partita del suo sfortunato libro africano. Un «fanfarone» si definisce nell’elenco dei personaggi, che apre il libro come un testo teatrale. E può darsi che, un fucile di grosso calibro in spalla e le tracce di un rinoceronte davanti a sé, il protagonista di Verdi colline d’Africa si trovi nella situazione ideale per riaffermare il ben noto aspetto guascone del suo carattere. Nel miglior Hemingway c’è sempre un punto della storia, o una certa temperatura emotiva, in cui il coraggio coincide con la vita stessa, con la sua bellezza che non è oggetto di contemplazione ma di conquista.

Non è forse per questo che continuiamo ad amare Hemingway, e a riconoscere in lui quel timbro di vero e inimitabile maestro ogni volta che riapriamo un suo libro ? A conti fatti, chi – come lui, tra quanti sono venuti dopo e magari scrivendo anche meglio – ci ha insegnato come stare al mondo? Tuttavia, qui il «fanfarone» chiede ai suoi lettori di seguirlo su una strada che nemmeno un editor come Maxwell Perkins o un critico come Edmund Wilson furono capaci di imboccare. Chiede di condividere il senso profondo di un’esperienza che spesso si configura come una specie di abbrutimento e di ossessione per l’atto di uccidere, collezionare trofei, trovare al più presto un’altra bestia da trasformare in un nuovo trofeo.

Dobbiamo sforzarci di pensare a tutto ciò al netto di un orrore per la caccia grossa che oggi, a differenza che nel 1935, è senso comune. In un mese e mezzo, interrotto solo da un breve ricorvero a Nairobi per una dissenteria amebica, Hemingway fece fuori un numero sbalorditivo di animali di ogni tipo. Nella lista interminabile compilata sulla via di casa figurano tre leoni, un rinoceronte, due splendidi kudu con il loro maestoso palco di corna, una quindicina di zebre per regalare pelli agli amici, e almeno trenta iene alle quali sembra sparare per puro divertimento, osservandone qualcuna mentre divora le proprie viscere aperte dalle fucilate. Alla mattanza si aggiunge un singolarissimo disinteresse per la vita animale e la sua misteriosa perfezione di forme e movimenti.

Se l’Africa di questo libro è fredda, è soprattutto perché tra chi ne scrive e ciò che vede l’empatia sembra ridursi al minimo, e tutto appare solo in funzione di un determinato scopo. Di tutto quanto può fare un animale, erbivoro o carnivoro, viene considerato esclusivamente ciò che lo ridurrà a un corpo morto oppure ciò che gli eviterà questo destino. E lo stesso può dirsi del paesaggio, che non è mai, o solo in misura assolutamente marginale, bello o brutto, sereno o minaccioso, ma piuttosto solcato da burroni, coperto di vegetazione, attraversato da fiumi e più o meno agevole per seguire la pista di un animale.

Cominciando a scrivere Verdi colline d’Africa nella primavera del 1934, appena tornato in America, Hemingway si rese conto che la sua sfida alla letteratura «di fantasia» implicava non solo una selezione drastica dei contenuti della memoria, ma anche un gesto più radicale. L’unico equivalente scritto dell’esperienza che possa aspirare a una natura poetica, insomma, è il risultato di una riduzione all’assurdo. Grande, e ancora attualissima lezione: perché una cosa sia davvero visibile in un tessuto verbale, bisogna esaltare una sua componente a discapito di tutte le altre. Liberarsi, insomma, del fardello della descrizione. In questo senso, la scrittura è veramente una caccia e la caccia è un’allegoria della scrittura.

Quella regola «dell’uccidere di netto, e come si deve» non vale solo per il cacciatore e i suoi discutibili codici morali. Se il cacciatore è «innervosito», compie il peggiore degli errori, come quando, sparando a un’antilope nera, si accorge di aver tirato all’animale «nella sua interezza, invece che nel punto giusto». Il cacciatore che manca il «punto giusto» si troverà a braccare un animale ferito, scrutando le tracce di sangue sugli steli dell’erba, frustrato e colpevole. Esattamente quello che accade allo scrittore, che deve sempre, per ottenere un risultato, o se si vuole un «trofeo», sostituire la realtà, con tutte le sue tentazioni e le sue pieghe, nel «punto giusto», che ne arresta la fuga.