Per una volta, partiamo dal bis. Ben Frost si consulta a gesti con il suo staff e ottiene il via libera per un ultimo brano. Sono già quasi novanta i minuti con cui ha abitato la Sala Petrassi dell’Auditorium, eppure ancora non ha voglia di recuperare le scarpe che si è tolto ad inizio concerto e che ha lasciato ai piedi del grande scranno plastificato alle sue spalle. Il brano sembra davvero totalmente improvvisato, con Frost che manovra i suoi alambicchi tecnologici come un chimico che sta provando un’alchimia nuova. Il brano parte con un sommovimento fragoroso, come se tre Tir stessero precipitando in un dirupo. E’ da questo modulo di rumori che si sviluppa il brano. Ed è questa, ancora una volta, la chiave migliore del suo processo creativo. Quando Frost, australiano quasi quarantenne che ha preso casa a Reykjavík oramai da molti anni, si lascia avvinghiare dal suo libero gioco nel regno dei rumori, ottiene quasi sempre mirabilie.

CERTO si tratta di mirabilie impegnative ed estreme. Come scalare un vulcano, per sollecitare un’immagine legata alla rappresentazione orografica della terra in cui ha scelto di vivere. Eppure è proprio nei momenti in cui cerca di addolcire questa pratica, come ha fatto di tanto in tanto nel concerto di Roma e nel tracciato di brani degli ultimi due album ufficiali – Aurora del 2014 e The Centre Cannot Hold del 2017 – che le sue imponenti cattedrali di suono cominciano a scricchiolare. E’ come se Frost fosse condannato al rumore, se la padronanza che mostra agitandosi come un ossesso nella tavola apparecchiata dei suoi strumenti digitali e della sua chitarra, lo trasformasse in operatore incerto e banale, appena indulge a qualche sia pur abbozzata cellula melodica, o a qualche riff che ricorda i cliché preimpostati della techno. E’ una défaillance che non capita spesso nel concerto romano. Lo stesso Frost deve essere consapevole che il suo liquido amniotico è fatto di sonorità minerali, stratificazioni noise, sussulti ritmici mai troppo quadrati, sibili e distorsioni. E queste sono le “sostanze” che usa prevalentemente.

PRENDIAMO Threshold of Faith, la traccia d’apertura dell’album più recente, nonché title-track dell’ep che lo anticipava: occorre davvero raggiungere una qualche “soglia fideistica” per affidarsi al flusso di cupe esplosioni e disturbi ronzanti che ne caratterizzano il corpus. Occorre lasciarsi immergere da questa tempesta di ultra-suoni e decidere più o meno coscientemente che il musicista che vi ha accompagnato in cima al cratere si merita di farvi da guida per la discesa nel centro gorgogliante del vulcano. Quando però nel finale di questo brano (lungo quasi sette minuti che dal vivo diventano dieci), inizia ad incunearsi il suono apparentemente rassicurante di una tastiera digitale, la magia immersiva si interrompe, la discesa nel cratere perde la sua credibilità e si trasforma in una simulazione con tuta in amianto. Meglio allora la strategia compositiva e performativa di Trauma Theory con la traccia melodica che compare ancora una volta nel finale, ma è una traccia mandata al contrario, sbrindellata, che assomiglia ai movimenti scomposti della coda di un drago ferito a morte.

O MEGLIO ancora il passaggio furibondo di All that you love will be eviscerated, “Tutto ciò che ami verrà sventrato”, dove il rumore non cede mai il passo ad altro. Siamo partiti dalla fine per una volta, nel racconto di questo concerto. Ma va ricordata anche la traccia sonora che ha aperto i giochi del set di Ben Frost: un ossessivo “pio pio” tremolante lanciato per confondere il silenzio della sala. Per un musicista abituato a comporre colonne sonore (per la tv e per il cinema) si tratta di una specie di segnale rassicurante, un escamotage efficace che prepara l’uragano a seguire. Non succede sempre così anche nelle pellicole horror?