Chi sarà mai il regista che inizia il suo film con l’immagine dell’universo, del caos primordiale? Ma è lui, l’unico, Terry Gilliam, con la testa piena di progetti non realizzati, da tre anni senza avere un set, alla ricerca di location per il suo Don Chisciotte ed ora a Venezia in Concorso con The Zero Theorem, il teorema che vorrebbe dimostrare che tutto è uguale a zero, una possibile risposta alla domanda sul «senso della vita» che divertiva così tanto i Monty Python delle origini.

Uno scienziato non troppo sano di mente e geniale (Christoph Waltz di Carnage, Django Unchained) è il protagonista, refrattario al contatto umano, che vive in una grande chiesa dismessa, circondato da affreschi, vetrate policrome, colonne tortili e cumuli di libri e computer di futura generazione, ma certo assai affidabili. Appena esce fuori dal portale è immerso in un caos di bombardamenti pubblicitari di cui è maggiormente responsabile l’azienda per cui lavora, l’impresa leader del settore con a capo Management (Matt Damon) che gli affida i compiti più complessi, come l’insolubile teorema. Riesce infine a fare in modo di lavorare da «casa» con uno sveglissimo stagista quindicenne, figlio del boss.

E mentre una spumeggiante bionda (Mélanie Thierry), sintesi tra Judy Holliday e Marilyn («che hard drive enorme che hai!»), gli apre i paradisi dell’incontro virtuale, l’unico che è in grado di sostenere, qualcosa di non virtuale si fa largo nella sua mente e soprattutto nel suo cuore.

Ricordiamo The Crimson Permanent Asurance, il suo episodio del Senso della vita quando era tra i Monty Python, la geniale scena degli impiegati anziani e malmessi dell’agenzia di assicurazioni che si distaccavano in volo dal loro ufficio diventato un vascello di pirati a sintetizzare inaspettatamente la nuova schiavitù del lavoro e la via d’uscita. Qui con un vasto dispiegamento di costruzioni sbalorditive si mostra una società del «futuro» che impone la separazione tra gli individui e favorisce i contatti solo virtuali. E ancora una volta ognuno dovrà dare le sue risposte, se non si perderà nella fantasmagorica costruzione dell’avvicendamento delle scene dove costruzioni e personaggi si fondono.

Lui e lei a un certo punto ondeggiano dello spazio come una citazione reciproca Gilliam-Cuaron: ci sarà pure un significato in questo. L’uomo dovrà probabilmente disconnettersi per ritrovare un senso, soprattutto per non essere vittima del nuovo sfruttamento del lavoro, anche se ha smesso di farsi domande per paura del licenziamento. Il divertimento puro di questo film allontana istanze moralistiche, va al nocciolo delle cose, a dispetto dello sguardo che vaga da un’invenzione all’altra, troppo humour per cedere alle banalità, al volgare trucco virtuale. E soprattutto Gilliam non conosce la risposta: «Ci sono lati buoni e lati cattivi nelle nuove tecnologie dice, può essere pericoloso ma anche entusiasmante, come la primavera araba resa possibile da internet che però ha riportato al potere quelli che c’erano prima, come è avvenuto in Egitto. Mi sono detto: faccio un film così smetto di preoccuparmi, poi si vedrà». Ed è stato fatto con pochi soldi, in pochissimo tempo, con stoffe cinesi di pessima qualità comprate all’ingrosso, girato in Romania (costi bassi e maestranze di tutto rispetto): «si schiaccia il tutto e si fa esplodere sullo schermo» è la sua ricetta.

Uno dei migliori film in concorso visti finora è Tom à la ferme (Tom alla fattoria) del giovane regista canadese Xavier Dolan, (classe ’89) autore di tre film presentati a Cannes: J’ai tué ma mère (2009), Les amour immaginaires (2010), Laurence Anyways (2012). Tratto da una pièce teatrale di Michel Marc Bouchard, si espande nella campagna del Québec, piatta a perdita d’occhio che diventa un luogo a parte dove fare esplodere pulsioni erotiche represse in uno scambio di vittima consenziente e carnefice che diventa vittima inaspettata e rende evidente al pubblico come in una danza, la presenza difficilmente distinguibile di genere. Tom (interpretato dallo stesso regista), giovane pubblicitario di Montréal si reca al funerale del suo amante Guy e trova ad accoglierlo la madre che non si dà pace perché non si è fatta vedere quella che crede essere la fidanzata del figlio, mentre il fratello Francis (Pierre-Yves Cardinal) vorrebbe annientarlo, in modo che la madre non scopra che di fidanzate non c’è mai stata l’ombra.

Ma soprattutto perché la presenza di Tom sconvolge la sua identità, la sua omosessualità tanto repressa da diventare un’arma offensiva, un gioco che eccita Tom e lo porta a condurre il gioco. Mentre il ritorno alla città diventa impossibile da praticare, le ombre del noir si affollano sulle loro teste, gestite senza sottomissione ai generi. La padronanza di mélo, commedia, classici, appena un pizzico di horror (Xavier Dolan era tra gli interpreti dello sconvolgente Martyrs di Pascal Laugier) è notevole, condotta con una non comune sensibilità. Fa decollare un finale di grande maestria la scena ambientata nel bar locale, dove è stato assai apprezzato il barista Michel Tadros, padre del regista, interprete consumato anche di serie tv.