Ha ragione da vendere Vincenzo Vita («Il manifesto» del 31 luglio) nel denunciare la volontà dell’Agcom di intervenire su una materia controversa come il copyright, sottraendola così al Parlamento. E non si può che essere d’accordo con lui quando sostiene che la strada da percorrere per riformare il diritto d’autore deve contemplare anche l’introduzione di norme «flessibili» e alternative a quelle dominati – Vincenzo Vita cita il Creative Common – a difesa del copyright, così come d’altronde sostengono da anni realtà nazionali e associazioni dei diritti civili in tutte le sedi possibili, dalla istituzionale World Intellectual Property Organization alla criticata Organizzazione mondiale del commercio (Wto). Rimane da capire, tuttavia, il perché una «materia calda» come questa sia diventato l’oggetto di organismi sovranazionali e di Authority che dovrebbero avere il limitato compito di definire le regole del gioco in settori economici, garantendo un’astratta concorrenza, ignorata e resa foglia di fico per coprire il frutto del neoliberismo reale, cioè la formazione di monopoli e oligopoli che aggirano sempre più la malmessa sovranità nazionale.

Il richiamo alla necessità che a legiferare sul copyright siano i parlamenti, cioè una istanza pienamente politica, è dunque condivisibile, ma va accompagnata da una critica della definizione del copyright come un tema economico o – e su questo la proposta di regolamento dell’Agcom non presenta ambiguità di sorta – di materia a cui applicare un’istanza pedagogica che educhi uomini e donne a ciò che è lecito e ciò che non lo è. L’Agcom svolge, con la sua proposta, una funzione di supplenza, perché vuole colmare, si deduce leggendo il documento dell’Authority, un vuoto, quello creato dall’innovazione tecnologica e da una complementare assenza di un qualificato intervento statale.

È altresì utile ricordare che la legge italiana sul diritto d’autore ha molti decenni sulle spalle e presenta tutti i limiti di norme definite più di settant’anni fa, cioè quando le televisione muoveva i primi passi e il computer era ancora fissato nelle pagine di un breve e immaginifico saggio di Alan Turing. Da allora molti lustri sono passati, il tubo catodico è ormai presenza diffusa nelle case, la Rete è diventata un medium con pretese universali e la legge è però rimasta più o meno sempre la stessa. Che abbia bisogno di una riforma è come dire che l’acqua disseta quanto si ha sete. Il problema è chi è la fonte di questa riforma.

La tradizione costituzionalista la indica nel potere legislativo. L’Authority, con la sua proposta di regolamento, la sposta su una istituzione «terza», estranea alle regole della democrazia rappresentativa. Nel sostenere questo, l’Agcom aderisce al credo neoliberista, che vede la democrazia come un ostacolo agli spiriti animali dell’agire economico. Ma visto che tale vision potrebbe facilmente essere accusata di semplicismo e determinismo, interviene anche una istanza etica, appunto educativa. Il regolamento dell’Agcom sostiene infatti la necessità di educare al rispetto della proprietà intellettuale e a definire sanzioni per chi la viola. Insomma, rivendica un ruolo non solo tecnico, ma anche politico. Anche in questo, la diffidenza verso la democrazia si accompagna a una tensione a eterodirigere comportamenti, stili di vita.

È anche questa una deriva autoritaria presente in molti aspetti della vita pubblica, che ha avuto il suo acme nel governo dei tecnici made in Italy e nel commissariamento della Grecia da parte dell’Unione Europea. Ma che ha proprio nella proprietà intellettuale il suo precedente più clamoroso.

I Trips (Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights) dell’Organizzazione mondiale del commercio stabilivano infatti norme che dovevano essere rispettate da tutti i paesi che aderiscono al Wto. Ed erano norme che non rispondevano a nessun parlamento locale, annullando ogni pretesa nazionale di respingerle. I Trips non furono però resi inoperativi dal governo di qualche paese, bensì da quel movimento globale che da fine anni Novanta del Novecento contestò e inseguì incontro internazionale dopo incontro internazionale i rappresentanti di imprese e governi presenti nel Wto fino a quando paesi «emergenti» come il Sudafrica, Brasile e India li hanno violati in nome dell’interesse nazionale. Da allora, sono rimasti sulla carta, anche se quella logica è stata continuamente riproposta su scala regionale (Unione europea) o su scala internazionale (come è accaduto con l’Acta, ad esempio) incontrando tuttavia sempre un’eterogenea opposizione costituita da movimenti sociali, mediattivsti, singoli stati, associazioni della cosiddetta società civile.
In ogni caso, la logica che veniva respinta era la trasformazione della proprietà intellettuale ad oggetto che poteva essere manipolato solo da «tecnici». Da questo punto di vista, l’Agcom si pone quindi su un solco già tracciato da altri. Con una aggravante, tuttavia: la pretesa anche di controllare l’applicazione del suo regolamento e di commisurare, autonomamente dal potere giudiziario, le sanzioni per chi viola quelle norme. Per questo motivo, la proposta di regolamento va trattata per quello che è: non una boutade estiva di un organismo che sgomita per un posto al sole della ribalta mediatica, bensì come l’esternazione di una volontà politica di aggirare il parlamento, il potere esecutivo e il potere giudiziario, cioè i tre capisaldi della divisione dei poteri delle moderne democrazie. Non è dunque una cosa da poco. Bensì un progetto da respingere.