È stato in piazza Santi Apostoli, lo scorso 24 settembre. Emanuele Macaluso sostenuto e appoggiandosi a due che con delicatezza, ma decisi, lo aiutano mentre saggia col piede il primo dei tre o quattro alti scalini, che dovrà fare per scendere dal palco. Ma il suo passo è incerto e la scaletta malsicura. Non c’è un appiglio del quale avvalersi. E allora qualcuno prontamente (Paolo Franchi? Peppe Provenzano?) si protende dal basso quasi ad afferrare Macaluso, prima che scenda d’un gradino ancora, e riesce a cingerlo di un abbraccio al quale Emanuele, rassicurato, si affida.

Sono anch’io tra i quattro o cinque più vicini, al piede della scaletta, con Maria Luisa Boccia e Antonio Bassolino. E quando Emanuele è ormai sceso, un poco frastornato, e volge lo sguardo d’attorno, mi coglie nell’atto di chi sta per muoversi, pronto a dare un aiuto, se ce ne fosse ancora bisogno, ma è tardivo il mio gesto e, ormai, felicemente superfluo. E allora mi sorride Macaluso, mi invita a non eccedere in soccorsi, che ha già dato soverchio impiccio agli amici. E poi, non esageriamo, sembra dirmi, caro Olivetti so ancora badare a me stesso. Ed io osservo il suo volto, gli occhi mobili e al fondo divertiti per quel piccolo trambusto, nella luce calante d’un cielo che prometteva al mattino una giornata di pioggia e lento si abbuia ora, tra i riverberi che forano le nuvole oltre piazza Venezia, verso il Tevere. Ho la sensazione di un corpo fragile e leggero, minuto sotto il cardigan azzurro che lo difende dai miti, pericolosi tuttavia, primi umidi d’un autunno che tarda a entrare.

Su quel palco Macaluso aveva appena terminato il suo estremo saluto a Rossana Rossanda. Ha detto di «un orizzonte» da indicare «alle nuove generazioni, se vogliamo onorare veramente con i fatti Rossana Rossanda, la sua opera, un’eredità vera, politica, e umana». E se intendiamo tramandare la passione civile, politica e culturale che «ha caratterizzato gli anni del Partito comunista italiano». Quelle «esperienze cumulative» da meditare oggi, dice, con uno spirito libero, «dove non c’è esclusivismo, ma un’esperienza complessa che noi dobbiamo valutare e trasmettere perché quell’impegno politico e culturale non venga spento, ma venga anzi acceso», con determinazione, ripete Macaluso, intesa ad aprire «un orizzonte alle nuove generazioni che mi sembra siano un po’ sperse». Le nuove generazioni. Considero la mia, quando fu, a suo tempo, la nuova. Ma non ‘spersa’ la generazione di noi, nati con la Repubblica, ai quali Macaluso e Rossanda per la prima volta guardavano come a una generazione nuova.

Era quella dei giovani d’una Italia che si sarebbe affermata migliore e ‘nuova’, dopo tanti scempi, e dolori e perdite. Noi, i figli, destinati ad essere i primi frutti di una coltivazione civile, intatti al mondo, non segnati da alcuna guerra, né dalla prima né dalla seconda, i terribili conflitti in armi che avevano falciato giovani vite, o lasciato, nei corpi e più negli animi, ferite indelebili e non risarcite, da trent’anni in qua, dal 1914 al 1945. Rossanda e Macaluso, madri e padri nostri, noi, la prima generazione della Repubblica.

Considero questa ascendenza, e mi chiedo quanto la nostra non sia una generazione che è rimasta di figli. Figli nati ricchi. D’una Costituzione, d’una democrazia parlamentare, d’un grande fermento nelle lettere e nelle arti che ha accompagnato la nostra crescita, la formazione della nostra coscienza politica. Noi, non privi d’una buona dose di assicurate garanzie, tanto da consentirci sperperi ed errori e il lusso di enfatizzare certezze.

La scomparsa, quattro mesi fa, di Rossanda e, quattro giorni orsono, di Macaluso mi pone innanzi questa mia condizione di ‘figlio’ che si rivela nella forma del dolore che provo. Per quanto ho avuto, fin dai miei diciott’anni, familiarità e consuetudine con Rossana, rara è stata la mia frequentazione con Macaluso. Ma dai tempi della mia prima attenzione alla politica, studente liceale, Macaluso è presente. Nel corso degli anni ho costantemente letto quanto è venuto scrivendo, un alimento di idee e di giudizi indispensabile nell’«esperienza cumulativa» che ha appassionato le nostre vite.