Può far sorridere, all’aprirsi del sipario, che la Saigon da cui prende titolo un impegnativo spettacolo (andato in scena all’Auditorium per il festival Romaeuropa), si riveli un ristorante di cucina vietnamita come ne esistono in tutto il mondo, e particolarmente in Francia (pare se ne contino 986). Il Vietnam rimane una realtà fortemente evocativa per tutta la generazione del ’68. Non solo in America, dove diverse generazioni presero coscienza del terribile potere di Casa Bianca, Pentagono e Cia, ma in tutto il mondo dove il nome di quel paese divenne il simbolo di ogni lotta all’imperialismo. Negli Stati uniti anzi quel nome simulacro che oscura la memoria di diversi presidenti americani, è stato semmai sopravanzato e quasi «sbiadito» dalle molte migliaia di reduci, invalidi e «spostati» prodotti, dopo la guerra in Indocina, dalle diverse altre «guerre per la libertà».
Per la Francia però (dove lo spettacolo è nato ad Avignone e ha trionfato in molte altre città), il rapporto col Vietnam ha altre implicazioni. E non solo quelle storiche e politiche dovute alla propria dominazione coloniale finita tragicamente con la sconfitta del 1954 a Dien Bien Phu per mano dei «ribelli comunisti» del Nord, che ottennero poi, nella divisione tra i blocchi, il Vietnam del Nord con capitale Hanoi, mentre gli americani occupavano il Vietnam del Sud con capitale Saigon. Fino al termine della guerra nel 1975, quando Saigon perse perfino il nome (ridotto oggi a quello del distretto centrale della città), diventando da quel momento Ho Chi Min, in onore del leader comunista che assieme al generale Giap aveva guidato quei duri decenni di offensiva.

Ma per i francesi appunto il ricordo è diverso: gli anni della dominazione coloniale e lo struggente addio all’Indocina, sono entrati perfino nel pantheon della letteratura nazionale, attraverso i racconti e le memorie di Marguerite Duras, per fare solo un esempio. Così che nel freddo ma accogliente ristorante Saigon ricostruito in palcoscenico (con cucina a vista in tempo reale e i tavoli bianchi continuamente sgombrati e riapparecchiati), la giovane autrice Caroline Guiela Nguyen con la sua compagnia teatrale Les hommes approximatifs, ci danno un racconto all’apparenza «banale», ma che di tutti quei precedenti reca una sostanziosa e perturbante eco. La memoria, lo spaesamento, il senso dell’esilio e della perdita sono tra i grandi temi che lo spettacolo racconta, attraverso la veste più «facile» di piccoli drammi familiari, o di scontri e incomprensioni tra generazioni diverse.

Eppure lungo quelle scene, che vanno avanti e indietro nel tempo (una grande didascalia luminosa indica ogni volta in quale decennio siamo, dal 1956 al 1996 ovvero ai giorni nostri) anche le piccole storie di tradimenti di coppia, di impazienti difficoltà a capirsi, o di figli che non danno retta ai genitori, o di anziani che mascherano per pudore incipienti disturbi della vecchiaia, assumono spessore e radici in quella incertezza di identità che non è solo uno sradicamento geografico. In quella miscela etnica (che rispecchia quella degli attori, francesi, vietnamiti, vietnamiti francesizzati) si fa strada il problema di ciascuno: la memoria, la consapevolezza di sé, l’accettazione dell’altro.

Anche se poi ogni cosa può momentaneamente ricomporsi, come a tavola, in cui piatti e sapori assai diversi trovano la loro armonia. Ed è inevitabile il pensiero ad altre migrazioni a noi più vicine, non meno traumatiche e motivate, e davanti alle quali ogni volta fingiamo di essere impreparati. E quel ristorante Saigon che non si è mai fermato (solo verso la fine Marie Antoinette l’inarrestabile cuoca che ha fatto marciare forni e fornelli, si lascia andare per un momento a qualche grido e a lacrime liberatorie) si rivela una veritiera rappresentazione del mondo, a cui è stato capace di farci partecipare. Con un piccolo rimpianto, per quanto questo avvenga raramente da noi.