Il governo ha avuto dal parlamento il via libera sul Recovery plan. Il ministro Speranza ha scritto la «missione 6» sulla sanità, per la quale sono previsti tanti soldi, circa 20 mld, con i quali la sanità si potrebbe rifare, di sana pianta. Le proposte, nel loro insieme, a parte quelle di scontato valore (aggiornamento delle tecnologie, digitalizzazione del sistema), in massima parte sono soprattutto la riproposizione di un dejà vu cioè di una offerta di servizi che prevede soluzioni già provate e fallite, rispetto alle quali non si fa neanche uno sforzo di rivisitazione culturale. Sono proposte, per esempio rispetto alla pandemia, al di sotto delle necessità reali del paese e dei problemi reali di sicurezza e di salute delle persone.

Ma la cosa più preoccupante non è questa, lo invece è la sostanza politica, cioè la rinuncia da parte della sinistra di governo, quindi di Leu, di affrontare la sfida riformatrice che la pandemia ha imposto. E’ incredibile come il Recovery plan insista giustamente sulle riforme quale condizione fondamentale per spendere bene i soldi indicando quali ambiti elettivi di riforma la giustizia, la pubblica amministrazione, la concorrenza, ma non la sanità. La pandemia è costata 120.000 morti a causa di un virus assassino, mostrando in modo inequivocabile come questo pazzesco numero di vittime sia correlabile e imputabile alle tante contraddizioni del sistema pubblico, alle politiche sanitarie sbagliate, agli errori di chi ha amministrato, alle contro-riforme fatte prima di tutto dalla sinistra, a un sistema istituzionale folle dove le diverse istituzioni sono tra loro in concorrenza.

Alla domanda se con un’altra sanità pubblica, un’altra organizzazione dei servizi, un altro genere di governance, ecc sarebbe stato possibile, avere meno morti, la risposta è facile: sì. I morti della pandemia sono indiscutibilmente frutto delle criticità del sistema sanitario pubblico esattamente come i morti del ponte Morandi sono funzione di tutto ciò che nel tempo ne ha causato il crollo. Ebbene come è possibile che nel Recovery plan si escluda la sanità da un processo di riforma e di ripensamento?

Come è possibile che il ministro non abbia sentito il bisogno di aprire una ricerca, un dibattito, un confronto, anche per capire cosa propongono le culture riformatrici che sono in pista? Il tempo per farlo c’era ma evidentemente non la volontà e meno che mai quella che eufemisticamente si chiama la sensibilità politica, per cui i limiti di un ministro, di un partito, di una certa sinistra oggi in piena pandemia particolarmente pesanti. Avremo tempo e modo per approfondire ogni questione nel merito della «missione 6». Ma intanto, se è vero come dice Draghi che per spendere bene i soldi dobbiamo riformare, siccome la «missione 6» è tutto meno che una riforma si rischia di sprecare i 20 mld previsti.

Ma se così fosse non si tratterebbe di un semplice spreco, perché portare il Fondo sanitario a 150 mld circa senza assicurare credibili contropartite né alla gente, né al paese, né all’economia, significa condannare la sanità pubblica all’insostenibilità quindi esporla al rischio di essere in futuro ancor più privatizzata. La scelta del governo di non riformare la sanità significa che ci teniamo: la controriforma del titolo V, le aziende anche se hanno fallito, i grandi squilibri nord-sud, quindi la mobilità sanitaria dei malati, la controriforme del territorio definite riordini, quelle che hanno riammesso le mutue e i fondi assicurativi, spianando la strada al welfare aziendale, e nello stesso tempo ci teniamo un ospedale definito ancora oggi con una riforma del 1968, una prevenzione rudimentale ferma alla concezione dell’ufficiale sanitario di un secolo fa, e medici.