Alessandro Leogrande aveva appena venticinque anni quando scrisse un approfondito libro-inchiesta sul contrabbando di sigarette nella sua regione d’appartenenza, la Puglia. Era l’epoca degli scafisti che tutte le notti solcavano l’Adriatico e sfidavano a viso aperto chi cercava di fermarli, e il giovane intellettuale tarantino sentiva l’urgenza di capire e raccontare, utilizzando la tecnica dell’inchiesta sociale, il metodo dell’approfondimento e uno stile che dalla letteratura apprendeva l’accurato utilizzo delle parole. «I libri di Alessandro sono qualcosa in più che delle inchieste, sono buona letteratura», ha scritto di lui Goffredo Fofi nell’introduzione a un suo libro dedicato a Taranto (Dalle macerie. Cronache sul fronte meridionale, Feltrinelli 2018).

VIENE DA CHIEDERSI come avrebbe aggiornato oggi Le male vite, pubblicato dall’Ancora del Mediterraneo nel 2003, aggiornato nel 2010 e ora riproposto da Feltrinelli (pp. 224, euro 12, prefazione di Gianfranco Bettin). Ci si domanda ora che il contrabbando di sigarette che lui considerava finito con la ricomposizione del quadro geopolitico dopo la dissoluzione della ex Jugoslavia pare essere, a detta degli esperti, uno degli effetti collaterali meno visibili del Covid.

«La crisi conseguente alla pandemia di coronavirus potrebbe ulteriormente alimentare anche il contrabbando di tabacchi lavorati esteri, già oggetto di interesse da parte delle organizzazioni criminali e, nel recente passato, anche di azioni efferate per l’assunzione del controllo», si legge nell’ultima relazione della Direzione investigativa antimafia. Il fenomeno non è mai sparito del tutto, ma negli ultimi anni erano cambiati i canali di vendita: dal banchetto per strada dei vecchi contrabbandieri al cosiddetto dark web. Ora riemerge. Basta spulciare le cronache locali per incappare in quasi quotidiani sequestri, dalle piazze sempre calde di Torre Annunziata al Vasto napoletano, dai vicoli di Palermo ai casolari-deposito delle campagne del foggiano. Segno che con la crisi provocata dal virus molte persone sono tornate a rifugiarsi nel lavoro informale e che una fetta di economia sommersa si regge ancora sulla vendita di stecche e pacchetti prodotti ai margini di quella legale.

A controllarla è chi ha il know how, dagli anni Ottanta di Michele Zaza ‘o pazzo che stivava le bionde nei casolari delle campagne del casertano insieme ai cavalli utilizzati per le corse clandestine: la camorra napoletana, in collaborazione con i trasportatori della Sacra Corona Unita pugliese, figli e nipoti dei contrabbandieri descritti da Alessandro Leogrande tra gli anni Novanta e gli inizi del nuovo millennio.

A quel tempo il fenomeno del contrabbando era all’apice e la capitale logistica del tabacco contraffatto era Brindisi, quartiere Paradiso, dove dava da vivere a cinquemila famiglie e sviluppava un giro d’affari di mille miliardi delle vecchie lire su un Prodotto interno lordo che nell’intera provincia non superava i settemila miliardi. La città pugliese non avrebbe potuto essere il porto d’ingresso, raccontava l’intellettuale tarantino scomparso tre anni e mezzo fa quando aveva appena quarant’anni, se dall’altra parte del Canale di Otranto non ci fosse stato un Paese come il Montenegro che reggeva la sua economia, annichilita dalla dissoluzione dell’ex Jugoslavia, sui traffici illegali con l’Italia e l’Europa.

«NEGLI ANNI DELLE SANZIONI decretate dall’Occidente contro la Serbia, il contrabbando è stata l’unica valvola di sfogo di fronte al rapido impoverimento dell’economia», scriveva Leogrande. C’era poi l’Albania alle prese con lo sfacelo dello Stato dopo il comunismo. Dalle sue coste, ogni notte gli scafisti imbarcavano armi, droga, migranti e sigarette, diretti all’altro capo dell’Adriatico. Nel momento in cui la «cortina di ferro» è caduta, prosegue, «il contrabbando ha rappresentato la più grossa forma di impresa, in un certo senso pionieristica», «transnazionale e dai tratti illegali, barbara perché primitiva (economicamente primitiva), e allo stesso tempo sofisticata perché determinatasi ben al di sopra dei confini nazionali». In fondo, conclude, «il contrabbando è stato (tranne gli eccessi) un buon esempio di new economy nel bacino Adriatico». Questa storia è finita nel 2000, quando l’allora ministro dell’Interno Enzo Bianco lanciò la cosiddetta Operazione Primavera, scatenata dallo speronamento di due finanzieri da parte di una colonna di contrabbandieri che viaggiavano a fari spenti nella notte. Da febbraio a giugno, 1.900 agenti delle forze dell’ordine arrestarono più di cinquecento persone e sequestrarono quasi trentatré tonnellate di sigarette, oltre a centinaia di chili di esplosivi, armi e droga.

IL CONTRABBANDO si è però solo riorganizzato, in maniera meno visibile e senza conflitti con lo Stato. Oggi che il fronte balcanico è più tranquillo e «la Valona degli anni Novanta sembra un fossile sociologico», come scrive Leogrande, le porte d’ingresso sono altre. Tir e furgoni carichi di bionde provenienti da Russia, Bielorussia e Ucraina entrano in Italia dal confine nord-orientale. Via mare, le sigarette non viaggiano più sui motoscafi dei contrabbandieri ma arrivano stivate nei container scaricati nei porti di Gioia Tauro, Napoli o Genova o a bordo di autoarticolati caricati su traghetti e navi in Grecia e fatti scendere ad Ancona, Bari e Venezia, nascoste in intercapedini e doppifondi, tra cassette di frutta e cartoni di yogurt, nelle scatole di calzature e nelle bobine di cavi elettrici.
Il traffico su gommoni si è spostato dalle coste nordafricane a quelle siciliane, e a volte viaggia insieme ai migranti in cerca d’asilo o di fortuna in Europa. Tra i luoghi di produzione, spuntano gli Emirati Arabi Uniti e i paesi del Nordafrica. Sempre più spesso però la camorra napoletana preferisce prodursi le proprie sigarette in laboratori clandestini, sfruttando il fatto che dalle piantagioni di tabacco del casertano si riversano sul mercato italiano diciottomila tonnellate di tabacco della varietà jersey all’anno e, tra i 1.321 piccoli produttori censiti e i 15 mila lavoratori stimati tra Marcianise e Santa Maria Capua Vetere, il rischio che qualcuno finisca per lavorare pure per i clan è più che concreto.

QUELLO CHE RACCONTA avviene in un periodo storico circoscritto: la Puglia del decennio dopo la caduta del comunismo, quando la frontiera a est si è d’improvviso dissolta. Su quello che è accaduto in quel periodo ha pesato «il piano inclinato dei rapporti est-ovest lungo il Canale d’Otranto», scrive. È lì che è avvenuta, a suo parere, la trasformazione dell’economia criminale pugliese, è stato in quel preciso frangente che «molti figli dei contadini raccontati da Gaetano Salvemini e da Tommaso Fiore» si sono improvvisati contrabbandieri pensando così di adeguarsi, a modo loro, alla «european way of life».

Leogrande non pensa che quanto accaduto sia l’ennesimo frutto perverso di uno squilibrio socio-economico tra Nord e Sud mai appianato dall’Unità d’Italia, ma inserisce il Mezzogiorno in dinamiche di più ampia portata rispetto alla sua atavica «questione». Utilizza il fenomeno del traffico di sigarette non solo per descriverlo nei dettagli, con dovizia di nomi e particolari che consentono di illuminare un decennio di storia criminale tra Puglia e Campania, bensì per scavare a fondo in un sistema che si integra senza difficoltà nell’economia lecita e che, al fondo, svela più di altri la rapacità del capitalismo neoliberista di fine millennio. Arriva a mostrare come a volte siano state le stesse compagnie del tabacco a creare un binario di mercato parallelo e a servirsene per aggirare i vincoli posti dagli stati. «Le due maggiori multinazionali del tabacco, la Philip Morris (Philip Morris e Marlboro) e la R.J. Reynolds (Camel e Winston), curavano da Basilea l’esportazione di tabacchi lavorati verso i Paesi del Medio Oriente attraverso tre società concessionarie. Questo circuito, distinto da quello ufficiale (…) costituiva il canale di riferimento dei contrabbandieri di tabacco», si legge nella relazione della Commissione parlamentare antimafia del 1999.

«Grandi multinazionali hanno pensato di agire su due livelli: uno ufficiale, l’altro sotterraneo. Dal momento che i Monopoli di Stato avevano fatto alzare i prezzi in modo insopportabile, era possibile conquistare un mercato di massa trovando un sistema per abbassare i prezzi, e questo sistema era il contrabbando», spiega Leogrande. Denunciata dall’Unione europea, nel 2004 la Philip Morris ha negoziato un accordo in base al quale avrebbe pagato 1,25 miliardi di euro in dodici anni per sostenere la lotta al contrabbando e alla contraffazione di sigarette. La R.J. Reynolds invece non ha mai voluto ammettere di sostenere il contrabbando.
Rilette oggi, le pagine di Le male vite colpiscono per lo sguardo lungo, la profondità dell’analisi, l’esercizio di critica della contemporaneità che pongono l’autore all’altezza della sfida lanciata dai maestri ai quali si ispirava, da Leonardo Sciascia a Pierpaolo Pasolini, del quale adotta come griglia interpretativa l’idea della mutazione antropologica degli italiani provocata dalla società dei consumi.

LEOGRANDE non si accontentava però di rimanere all’ombra dei padri. «Salvemini, Pasolini, Sciascia hanno fornito analisi profonde della corruttela e delle disfunzioni della nostra società nel Novecento, del rapporto crimine-economia-politica, delle metastasi del Palazzo e della sua burocrazia. Ma per capire quello che oggi avviene sotto i nostri occhi non possiamo più affidarci a loro, dobbiamo rinunciare al conforto dei padri e procedere sulle nostre gambe, sviluppando una critica della società contemporanea che sia all’altezza del baratro che essa ha prodotto», scriveva con grande saggezza.

La malavita diviene così una metafora della trasformazione radicale, definitiva della società italiana, mentre le «male vite» non appaiono che il risultato estremo di un cambiamento dapprima sociale e poi politico. Il punto d’approdo sarà il berlusconismo, un’ideologia di massa capace di tenere insieme le bande che aspirano a diventare mafia e i colletti bianchi che proteggono i traffici illeciti, gli avvocati che fanno le transazioni e i manager delle grandi compagnie, i giovani a rischio dei quartieri poveri che chiedono lavoro al boss e i banchieri conniventi, i broker internazionali che immettono i ricavi nel circuito della finanza globalizzata e i politici locali che ne ricavano guadagni e consenso.