«Così non è serio. Abbiamo sbagliato, ho sbagliato anch’io a non chiedere una riunione del gruppo. Ma non l’ho fatto, dunque poi ho votato con disciplina. Ma questo deve valere per tutti. Scatenarsi dopo è solo una furbata. Il Pd è un partito. E attenzione, se invece arriviamo al ’liberi tutti’, poi siamo davvero liberi tutti: anche di fare le interrogazioni su Ponte Vecchio». Matteo Orfini, giovane turco insospettabile di simpatie verso le ’larghe intese’, non ci sta a farsi scavalcare a sinistra dai renziani. L’aria della crisi di governo fa esplodere le contraddizioni del Pd. Il Transatlantico diventa l’anticamera del congresso. La crisi di governo è davvero vicina? Meno di quella del Pd.

Ieri a Montecitorio, dopo il sì democratico alla moratoria chiesta dal Pdl, i renziani sfilano davanti ai cronisti sacramentando. «Un suicidio politico», dice Elena Boschi, «Non sapendo più cosa rinviare abbiamo rinviato l’aula», twitta Roberto Giachetti, «Si doveva coinvolgere il gruppo», per Luca Lotti. «La camera sospende di fatto per protesta contro la Cassazione. Un precedente grave. Io non ho capito e non ho votato», Paolo Gentiloni. Ma è uno dei pochi che davvero non ha partecipato al voto, una ventina in tutto. Fra loro ci sono anche i prodiani Sandra Zampa e Pippo Civati. E Rosy Bindi, durissima: «Il leale sostegno a Letta non può significare l’avallo di atteggiamenti di eversione istituzionale, come quelli praticati dal Pdl».

In serata dieci renziani vergano un atto di rivolta verso il capogruppo Speranza, il segretario Epifani e il ministro Franceschini, che hanno «mediato» con Pdl ottenendo che la «moratoria» di tre giorni del lavoro d’aula si travestisse da «sospensiva» di prassi. «La gestione del voto da parte della dirigenza del gruppo è stata incomprensibile, nessuno è stato informato, nessuno ha capito cosa è successo». Ma quello che è successo nel primo è facile da capire. Un dalemiano doc lo fotografa scosì: «Ci siamo calati le braghe». In aula, dopo il voto, i grillini sciamano sotto gli scranni del Pd: «Buffoni, servi, schiavi». Con due dem, Piero Martino e Nico Stumpo, si sfiora la rissa.

Ma la verità è che il Pd va nel pallone: alle tre del pomeriggio Epifani aveva tuonato: «La richiesta di sospendere i lavori del parlamento per tre giorni, a seguito delle decisioni della Cassazione, costituisce un atto irresponsabile e inaccettabile. Il Pd non si è prestato né si presterà mai ad una logica di questo segno». È bastato che il Pdl riducesse la richiesta di sospensione a iun giorno e il Pd ’si presta’. «Non potevamo negare una richiesta di stop di poche ore», ragiona il franceschiniano Garofani. «Un fatto di fair play istituzionale. Né possiamo sindacare sui motivi della richiesta. Del resto, il Pdl presto si potrebbe trovare con un leader condannato in via definitiva: hanno un problema, non c’è dubbio».

Ma anche il Pd avrebbe un problema, un grosso problema, nel continuare a governare con il Pdl, se il suo leader fosse condannato per aver truffato sui diritti tv. Il Nazareno ha incardinato un congresso con ritmi da moviola. Ora tutto fibrilla. Epifani sospende la riunione sulle regole del congresso di oggi, che doveva sancire la separazione fra segretario e candidato premier. La tregua con il sindaco di Firenze salta.

Nonostante i ripetuti segnali del Cavaliere, che non vuole aprire una crisi di governo sui suoi guai giudiziari, il Pd va in tilt. Serve una «verifica», stavolta non del governo, ma del partito. «Abbiamo bisogno di un partito unito per tener fermo il punto che l’esecutivo Letta è un governo di servizio agli interessi dei cittadini, e non i alle vicende personali di Berlusconi», attacca il bersaniano D’Attorre. «C’è bisogno di lealtà e chiarezza al nostro interno. Non è più consentito dire a parole di sostenere Letta e poi nei fatti determinare un clima continuo di polemiche precongressuali, dando l’idea che ci dividiamo tra intransigenti e cedevoli nei confronti di Berlusconi. È necessario un chiarimento di fondo nel partito e nei gruppi parlamentari». «Qui non serve chiarirsi ma capirsi. Quello che abbiamo visto oggi in aula non era il Pd, ma una sua brutta copia. Serve un Pd che faccia il Pd e che non sia un partito in balia dei problemi giudiziari del leader del Pdl», è la risposta del renziano Parrini.