Uno degli abbagli provocati dalla recessione, iniziata nel 2008 e giunta ormai al quinto anno in Italia, è credere che i più colpiti siano i giovani dall’età compresa tra i 15 e i 29 anni che non studiano né lavorano. Lo crede il governo che, nel decreto sul lavoro licenziato mercoledì, ha distinto rigidamente una sfera della povertà assoluta dove i giovani compresi in questa fascia di età hanno appena il diploma di scuola media, non lavorano da almeno sei mesi e hanno uno o più familiari a carico. Queste persone costituirebbero una parte dell’esercito dei «neet», in particolare meridionali, a favore dei quali il governo ha stanziato 794 milioni di euro entro il 2015 (650 euro massimo al mese per ciascuno). Non è facile rintracciare questo profilo nella cartografia della disoccupazione italiana tracciata ieri dalla direttrice del dipartimento per le statistiche sociali dell’Istat Laura Sabbadini in un’audizione in commissione Lavoro alla Camera. Nell’oceano del disagio occupazionale (7 milioni di persone tra disoccupati, scoraggiati, sottoccupati e cassaintegrati), viene confermato il dato che i giovani tra 15 e 29 anni sono tra i più colpiti dalla crisi. Tra il 2008 e il 2012 hanno perso il lavoro in 727 mila (di cui solo 132 mila nell’ultimo anno). In cinque anni il tasso di disoccupazione è aumentato di dieci punti, e tra i «relativamente» più colpiti ci sono i giovani che hanno la licenza media (tra di loro i disoccupati sono aumentati del 5,2%). Ma, appunto, tutto si gioca su questo «relativamente» perché l’Istat (diretto fino a due mesi fa dall’attuale ministro del Lavoro Enrico Giovannini) evidenzia una situazione più composita. I «giovani» tra i 15 e i 29 anni entrano ed escono da un rapporto di lavoro intermittente e precario. Sui 2 milioni e 375 mila lavoratori nel 2012, chi ha un contratto a termine più della metà ha meno di 35 anni, ma ben il 39,5% ha tra i 35 e i 54 anni. Il disagio occupazione, e le nuove povertà, si annidano in queste fasce di età in un paese dove si viene considerati «giovani» fino alla soglia dei 40 anni, cioè l’età dove la precarietà si concentra di più in termini assoluti. In più, l’Istat ha documentato come il periodo di disoccupazione, e la ricerca di un nuovo lavoro, sia aumentato dall’inizio della crisi e nel 58% dei casi si resti precari. In questa cornice di generale precarizzazione, e in alcuni casi di reale proletarizzazione della forza-lavoro, i disoccupati tra i 40-59 anni sono più che raddoppiati (+131,1%), tra i 60-64enni del 180,7%, mentre i 20-24enni del 69,5%, meno di un terzo. Quella dei giovani poveri senza titoli di studio rappresenta dunque un aspetto parziale della condizione lavorativa di tutta la forza-lavoro attiva, e in particolare di quella giovanile.L’Istat assicura che un taglio del cuneo fiscale di un punto di Pil destinato alle imprese garantirebbe 200 mila occupati in più entro il 2015, ma tale taglio è stato rinviato da Giovannini alla legge di stabilità a fine anno perchè al momento non ci sono risorse. Riducendo il carico fiscale sulle imprese, e non ai lavoratori, l’Istat ritiene che i benefici sarebbero maggiori. In caso contrario l’impatto sarebbe «modesto»: 30 mila occupati. C’è tuttavia un altro rischio che qui non viene valutato: i 794 milioni di incentivi, come già accaduto in un’occasione analoga nel 2002, potrebbero essere utilizzati dalle imprese senza produrre nuova occupazione stabile. Dal 2008 è stato assunto solo il 25,6% tra i 15-29enni, mentre aumenta chi trova solo un posto precario (63,6%). Significa che le imprese evitano di assumere, mentre calano anche le forme di lavoro temporaneo: – 50 mila «giovani» solo nel IV trimestre 2012.