Ad un ritmo sempre più accelerato si susseguono a Napoli gli spettacoli che segnano in qualche modo la «riconquista» del teatro. Sono una vera gragnuola quelli del Napoli Teatro Festival, in spazi sempre più numerosi e diversificati, mentre ha preso corpo in parallelo la rassegna di quelli raccolti e proposti dallo stabile Mercadante al Maschio Angioino. Sembra correre veloce la vita qui, anche per altri segni esteriori: in meno di un pugno di giornate sono spariti i pesanti e aggressivi lupi di ferro che puntavano le loro fauci verso la sede comunale dall’intera piazza Municipio (con tutti i significati che si potevano dare alla installazione dell’artista cinese Liu Rowang protesa verso la sede di De Magistris, anche se l’autore l’aveva progettata per piazza Plebiscito). Ora la piazza è tornata ai bambini che la animano da mattina a sera. Ma un’altra presenza ferina si è levata, in queste sere, proprio dal palcoscenico del contiguo Maschio Angioino.

È QUELLA protagonista del racconto di Mimmo Borrelli, Nzularchia (in dialetto «itterizia», malattia che non si può nascondere o dissimulare) che l’autore ha trasformato in un «assolo» dall’originale, un testo a più voci che lo aveva fatto conoscere e imporre nel panorama teatrale italiano una quindicina di anni fa, con la vittoria/rivelazione in quello che era allora il maggior premio drammaturgico nazionale, a Riccione. Ebbe anche una memorabile messinscena quella Nzularchia, proprio al Mercadante, con la regia di Carlo Cerciello e un cast capeggiato da Peppino Mazzotta. Ora lo stesso autore, sempre voglioso e quasi «necessitato» di essere lui la personificazione prima delle sue creature, ne ha fatto una polifonica e impressionante versione solista, con l’unica altra presenza in scena di Antonio Della Ragione, che lo stesso Borrelli definisce non «autore delle musiche», ma regista di una parallela drammaturgia sonora.

SU QUELLE note graffianti ed evocative provenienti da corde e percussioni, lo spettatore intravede i personaggi, o meglio le ombre, quasi ci fossero i termoscanner che ormai ci sono familiari, di personaggi che possono anche legarsi come facce apparenti di una unica creatura. Anche se ben nettamente tra loro sono ripartiti il «bene» e il «male». Gaetano , in quella notte di tregenda, e con la muta testimonianza del piccolo Piccerillo, riconosce, disseziona, elenca e denuncia gli orrori della figura paterna Spennatore, già boss malavitoso e ora vagante, sdrucito e impaurito, ma sempre nemico, nel buio di quegli ambienti da incubo. Nello spazio di un’ora, Borrelli ci porta per mano (quasi per paura) nelle spire avvolgenti di quella cantata blasfema, che pure ha tutta l’intensità di un rito, non tanto espiatorio, quanto di aggressione, al cielo e ai suoi valori costituiti. Un cielo fatto di carne però, come del resto le parole che di questa esperienza sono tesoro e lascito. A momenti lo spettatore può temere lo scoramento, davanti ai significati sprangati dentro quelle parole che riportano il senso antico della lingua tellurica di quella zona ribollente che è la patria di dell’artista, tra Bacoli e Pozzuoli. Ma sono solo momenti della «pigrizia» teatrale cui siamo abituati.
Quella lingua misteriosa e misterica (il maggiore e più sorprendente tesoro dello spettacolo) quasi costringe ad andare avanti, nella sua spudoratezza quasi indecente. Perché per ognuno poi quei fantasmi si ricompongono, fuori da giudizi morali, dentro la magia di un racconto che attraverso la lingua e la sua musica attanaglia, tra paure e un sorriso, mentre quel mondo nero si ispessisce e dilaga. È una lingua costruita come se sgorgasse spontanea, dalla memoria e dalle vite di tante creature, una lingua che si fa nenia più vitale che funebre, anche se sembra raccontare di mondi lontani e sanguinanti.

È UNA VERA esperienza per lo spettatore, sorella a quella dilatata a kolossal ne La Cupa, l’ultimo testo di Mimmo Borrelli, che il lockdown ha impedito girasse per l’Italia dopo il debutto lo scorso anno al San Ferdinando. Ma questa concentrazione, nel corpo e nella parola dell’artista in solitaria, racchiude altrettanti mondi su cui riflettere e perdersi, nel piacere incontrastato del teatro e dei suoi fantasmi.