Da Mattarella a Mattarella, dunque. Ma anche: da Berlusconi a Berlusconi. Non è un caso che questa elezione del Presidente della Repubblica abbia preso le mosse da un ritorno al passato.

L’uomo di Arcore ha inaugurato un’epoca e quest’epoca è giunta a un culmine, con la sua patetica voce in sottofondo. La crisi dei partiti e il trionfo della demagogia hanno investito coi loro effetti il vertice dello Stato, a partire dalle modalità dell’elezione e dai riti che l’hanno accompagnata.

Nel 1994 aveva preso corpo e vinto la politica spettacolo, uno spettacolo essenzialmente televisivo. Oggi anche l’elezione del Presidente si è fatta spettacolo. Una rappresentazione mediocre a cui hanno dato il loro apporto attori consumati, guitti improvvisati, e persino attempati interpreti di parti compassate. Poco è mancato che entrasse in concorrenza col festival di Sanremo.

Per fortuna alla fine è rientrato in scena un protagonista vero, un pilastro nella difesa della Costituzione che altri continuano a insidiare. Un uomo troppo saggio per ricordarsi delle ostilità che ha incontrato e delle schermaglie di cui è stato oggetto in passato.

Che la regia esagitata e sguaiata delle manovre sia stata presa da uno statista abituato a chiedere i pieni poteri in costume da bagno la dice lunga sullo stato del degrado: uno che non aveva il profilo per decidere – come ha fatto in questi giorni – quanto fosse degno quello dei candidati. Cosa potevamo aspettarci da un parlamento frutto dell’ondata demagogica del 2018, giunto alla prima prova istituzionalmente impegnativa in cui occorreva esibire non solo l’attrattiva dell’antipolitica e delle frasi ad effetto ma le doti di classe dirigente?

Certo, la sceneggiata è stata clamorosa e anziché passare in fretta sul carro del vincitore occorrerebbe chiederne conto ai responsabili.

La destra in primo luogo, in tutte le sue varianti, che ha paralizzato le procedure per dieci giorni sostenendo senza convinzione la candidatura impresentabile del suo benemerito fondatore, ha cercato la prova di forza spingendo nella polvere la seconda carica dello stato. Per ben due volte, quella privata del cavaliere in disarmo e quella pubblica della candidata senza padrini, sono andate allo sbaraglio.

Anche gli altri vincitori del 2018, i 5 Stelle, compresi transfughi e dissidenti, largamente allo sbando, hanno dato il loro bel contributo di opacità e confusione, lasciando intendere a più riprese in maniera obliqua (chi si ricorda la trasparenza ? ) di potersi riagganciare all’amico di ieri e avversario di oggi pur di liberarsi del capo del governo in carica.

A pagare tutto questo, malgrado il lieto fine, sono il cammino intrapreso dal Paese verso una ripresa – che si spera includa, più di quanto fin qui non appaia, la lotta contro le spaventose e crescenti diseguaglianze – la dignità delle istituzioni e l’immagine dell’Italia, che l’anno della pandemia e le capacità dei governi che si sono succeduti avevano sensibilmente migliorato. Draghi ha fatto il domatore di belve ma le belve si sono risvegliate alla prima occasione. Dobbiamo augurarci che torni ad esercitare la sua regia avendo ben compreso chi lo asseconda e chi lo ostacola.

Ultimamente si è fatto un gran parlare dei limiti di Draghi: un autocrate, che parla troppo poco, presuntuoso e sprezzante. Le sue virtù sono state convertite in difetti. Nell’età dei populismi, dal paese che amo alle leggi acchiappaladri, dei twitter, dei poster e dei selfie, il suo stile asciutto, diretto, chiaro, ostile alle sciatterie, alle allusioni, alle insinuazioni, agli insulti, infastidisce oltre che stupire.

Draghi non ha eclissato la politica, come banalmente si dice, ma certo ha sbaragliato il suo linguaggio dominante da un quarto di secolo, mostrandone il vuoto, sia quando è riempito di enfasi sia quando è spalmato di volgarità.

Basti pensare a quello usato nella visita al carcere di Santa Maria Capua Vetere con la ministra Cartabia, quando ha semplicemente detto che il carcere non è terra di nessuno, ma un territorio dove vige e comanda la Costituzione, mentre i suoi antagonisti proclamavano la loro solidarietà con le divise comunque indossate.

Chi ha capito bene tutto questo è un altro che non emette fiato a scopo di audience, il segretario (non capo) del Pd. Letta, e con lui i rappresentatanti di LeU, hanno parlato di “risorsa Draghi” da difendere: riserva di competenza, di immagine, di sobrietà, senza per questo farne una Trimurti, e senza negare i limiti che la sua azione ha dovuto scontare di fronte a un panorama politico frantumato e dominato dalle voci della demagogia e del sovranismo.

Non l’ha capito l’europeista coi fiocchi Salvini, non l’ha capito purtroppo neppure l’equilibrista Conte, dal quale ci si aspettava una condotta meno spericolata pur in presenza di un movimento 5 Stelle polverizzato e riluttante. Per fortuna a prevalere non è stata la propensione allo sfascio che ha imperversato nella settimana che si chiude.

Una nuova garanzia in questo senso viene dall’altra straordinaria risorsa della democrazia confermata, quella appunto di Mattarella. Presidente di tutti che tuttavia non ha mai incarnato né difeso tutti i valori e men che quelli che valori non sono: l’isolamento nazionalista, il rifiuto di rispettare i diritti umani e civili portata fino alla negazione del diritto alla vita, le politiche della paura e dell’odio spinte fino alla tolleranza verso il neofascismo.