Ci sono trentacinque anni di riflessioni sulla storia italiana nell’antologia degli studi di Claudio Pavone che, per la curatela di David Bidussa, ci viene oggi offerta con il titolo Gli uomini e la storia. Partecipazione e disinteresse nella storia d’Italia (Bollati Boringhieri, pp. 240, euro 18). Si tratta di cinque saggi, pubblicati tra il 1964 e il 2000, sulla «crisi della democrazia risorgimentale» negli anni postrisorgimentali, sul tema strategico della «continuità dello Stato» nel mutamento di regimi politici (ed istituzionali), sull’argomento della «zona grigia», sulla concettualizzazione novecentesca del rapporto tra fascismo e dittature e sul legame dialettico, e a volte estremamente contraddittorio, tra «elaborazione della memoria e conservazione delle cose». Sono articolazioni profonde del discorso storico, e della stessa discussione storiografica, che l’autore medesimo ha attivamente contribuito a formulare nel corso del tempo. Il volume segue al numero monografico di Parole Chiave, l’importante rivista di studi storici, da lui stesso diretta, interamente dedicato al lascito intellettuale, morale e civile di Pavone, venuto a mancare quattro anni fa.

NEL VOLUME c’è l’immagine riflessa non solo della traiettoria di una figura intellettuale di primaria grandezza ma anche del modo il cui l’Italia è stata interpretata, dalla seconda metà degli anni Sessanta in poi, da chi ne aveva gli strumenti culturali più efficaci. Senza chiudersi in un eburnea torre d’avorio. Poiché Pavone ha sempre avuto, tra le altre, due frecce nella sua faretra: non è mai stato condiscendente con lo spirito dominante dei suoi tempi, risparmiandosi quindi premature nostalgie così come facili moralismi, due trappole nelle quali, invece, sono caduti alcuni dei suoi contemporanei; è di formazione un archivista, e poi solo successivamente uno storico. Come tale, lavora soprattutto sulle carte, sul loro riordino prima ancora che sull’interpretazione; quindi, sull’urgenza di dare ad esse una sequenza e poi, a stretto seguito, un senso condiviso. Proprio per questo, non è mai stato affetto dal quel feticismo del documento (la patologia intellettuale per la quale il testo scritto da sé basterebbe per riconsegnarci il contesto delle relazioni in cui maturano decisioni strategiche) che invece accompagna gli ingenui. I quali, a volte anche da posizioni accademiche (Pavone lo era solo in parte, malgrado alcune titolarità), sono all’eterna ricerca del ritorno sensazionalistico, rivelando in tale modo di non sapere comprendere il senso della contestualizzazione: «conservare significa decontestualizzare e ricontestualizzare ogni volta che si dispongano le cose salvate nei musei e in altri analoghi luoghi-istituti e le si voglia utilizzare ai fini della ricerca storica». Mentre è invece autore profondamente interessato a capire quali siano i quadri politici, civili, culturali, finanche mentali, entro i quali, di volta in volta, si innesca l’azione collettiva.

IL SUO GIGANTESCO LAVORO sulla Resistenza italiana si inscrive in questo indirizzo, dandogli corpo e sostanza. Poiché fa interagire una pluralità di fonti, le governa, le inserisce all’interno di un evento storico complesso dando ad esse una vita a sé. Non è storico solo perché voglia offrire sostanza ai fatti trascorsi ma in quanto si domanda quanto i reperti del passato siano animati dalla conoscenza degli stessi fatti.
In un gioco di riversamenti continui. Pavone, anche per queste ragioni, quindi, non è sempre un autore di facile accessibilità. Ha una scrittura lineare ed intellegibile ma procede per problemi e dilemmi, lasciando aperte più piste di lavoro di quante ne possa esplorare con le sue sole energie. Domanda infatti lettori tanto esigenti quanto capaci di non perdersi nel vivace labirinto delle ipotesi che lui stesso solleva, non come rompicapi ma in quanto tracciati di lettura, a partire dai quali, come in una concatenazione chimica, cerca di stabilire nessi e collegamenti a volte imprevedibili.

ANCHE PER QUESTO si è candidato da subito a divenire un classico, venendo però riconosciuto come tale solo nel 1991, quando si rivelò, anche agli occhi di un pubblico più ampio di quello abituale, con la sua opera monumentale, storiograficamente periodizzante, dedicata alla lotta partigiana e di Liberazione in Italia. Nella sua aspra visionarietà (che tiene insieme documento, laboratorio, letteratura e storiografia, testimonianza e tracciato politico), si ritrova il senso dell’impossibilità di leggere il tempo sulla base di un unico indice. Il suo cantiere è infatti un laboratorio dove domina il senso della provvisorietà. Non si tratta di un atteggiamento di maniera, beninteso, e ancora meno di un vezzo intellettuale, bensì di un modo di interpretare il senso del passato alla luce del presente: nel primo non riposa il significato del secondo ma la radice di quelle scelte che portarono alle discontinuità di cui si alimenta la storia in quanto tale.

IL CURATORE IDENTIFICA, non a caso, nel termine «moralità» il fuoco della riflessione di Pavone poiché, come lo stesso storico afferma, è «parola particolarmente adatta a disegnare il territorio sul quale si incontrano e si scontrano la politica e la morale, rinviando alla storia come possibile misura comune». Pavone non è quindi debitore e neanche mero depositario di una sola tradizione culturale e politica rispetto alla riflessione sulla storia del nostro Paese. Di sé affermava di essersi semmai scoperto come «tardivo azionista». La sua forza, in fondo, sta nell’avere ragionato da sé, senza obblighi di sorta. In tale modo, ha quindi scontato la frequente indifferenza di quelle accademie che hanno invece continuato a raccontarsi in termini di rassicurante continuità quand’anche essa era già venuta meno da tempo. Se parliamo di Claudio Pavone siamo quindi dalle parti di un Marc Bloch, che di un certo modo di cogliere lo spirito dei tempi – attraverso l’immaginazione sociologica, la curiosità incessante e il rapporto di continuo interscambio tra esperienza individuale, ossia la dimensione della risonanza personale, e mondo circostante, quello dell’impalcatura corale – ci ha consegnato un vero e proprio metodo di lavoro. Su noi stessi, prima ancora che su coloro che ci hanno preceduti. E sulla valenza simbolica che il passato gioca con forza rispetto al presente. Sapendo che il simbolismo dei trascorsi è essenzialmente il risultato delle aspettative del presente.

NEL VIVACISSIMO e fertile laboratorio di Claudio Pavone entrano infatti in gioco molti elementi, tra di loro strettamente interconnessi poiché costantemente interagenti: l’archivio, la ricerca, la costruzione del giudizio di senso e i criteri per la sua condivisione. Sono quattro dimensioni strategiche che lo hanno accompagnato per tutta la sua vita e che si estrinsecano anche nella pluralità di attività professionali nelle quali si è impegnato: impiegato, sia pure per breve tempo, presso la Confindustria, poi funzionario di rango degli archivi di Stato, docente incaricato e quindi associato all’Università di Pisa, organizzatore culturale e figura chiave nella rete degli Istituti per la storia della Resistenza e nella Società italiana per lo studio della storia contemporanea. Molte cose insieme nella stessa persona, spesso al medesimo tempo.

LA STORIA, per Claudio Pavone, è essenzialmente un ambiente, un habitat ecologico dove interagiscono attori, risorse, discorsi e legami. Nei suoi scritti, quindi, più che trovare riferimenti al tempo in senso stretto si viene catapultati in una dimensione spazio-temporale dentro la quale viene operato un lavoro di tracciamento. Ha scritto efficacemente lo stesso Bidussa in un altro testo: «scrivere la storia di un tempo e di un evento, mettendo al centro le forme della partecipazione, nel momento in cui si viveva l’esperienza concreta, e poi ritornare a riflettervi indagando come li abbiamo “archiviati” nella nostra mente non è solo un esercizio di ricostruzione tecnica, ma riguarda molte cose. Categorie e atti come scelta, valori, violenza (esercitata e subita), giustizia, morte (vista e data), pur calati in una dimensione quotidiana che contribuiva a dare a ciascuno di essi un significato nel tempo dell’evento, non sono idee fisse, icone cui si possa ricorrere per dare un senso alla propria azione in un altro e diverso contesto e in un altro tempo storico».

Ritorna il tema fondamentale della moralità: degli individui, delle organizzazioni, nei rapporti sociali. Pavone è stato soprattutto un narratore di discontinuità. La sintesi del suo lavoro nel libro, ora a disposizione dei lettori, sta in quella dialettica tra «partecipazione e disinteresse», ovvero tra emancipazione e conformismo, che diventano i due estremi per interpretare la storia d’Italia secondo un registro che ce ne restituisca le ricadute anche nel tempo della disarticolazione e del disagio che stiamo vivendo oggi, dentro un presente sempre più angosciante. Ed incomprensibile.