Dal Salento ormai da qualche anno scoperto dal turismo si pensa di conoscere tutto, dopo un lungo sonno di secoli e un isolamento ben custodito e dove succedevano in ogni caso cose interessanti. Ma il turista percorre le spiagge e difficilmente si ferma nei paesi dell’interno che sono un mondo a parte. Uno di questi dal nome di fantasia è Disperata e ce lo racconta Edoardo Winspeare nel suo ultimo film La vita in comune (da ieri nei cinema) parabola che nasce da una terra mite e pia dove la natura ha il sopravvento sull’uomo. Come ogni parabola anche questo ha una morale e lati oscuri. Intanto il paese si trova alla fine della terra, «il Capo» come viene chiamato il Capo di Leuca e prende spunto da Depressa, il paese del regista da cui ha tratto ispirazione fin dal suo esordio Pizzicata.

Alcuni dei concittadini che ha utilizzato anche nei film precedenti diventano qui protagonisti, come Patì (Claudio Giangreco) e Angelino (Antonio Carluccio). Per lui sono sempre stati banditi, spacciatori, contrabbandieri, mafiosi, trasportatori di migranti: qui interpretano due fratelli imbranati dediti alle rapine che per il loro ultimo colpo alla pompa di benzina arrivano in bici attraverso i campi.

Patì per difendersi dall’attacco di un cane lupo lo uccide e viene preso dai sensi di colpa e dalla polizia. Cambio scena: siamo nel carcere dove si trova faccia a faccia con un feroce camorrista, Ciro a’ Bestia (Antonio Pennarella), ma dove grazie alle lezioni in carcere scopre la poesia. Le impartisce il sindaco del suo paese, che invece non ha molto controllo sui suoi assessori, più interessato alle belle lettere che alle contese politiche.

Come intorno ai fuochi che bruciavano le fascine nelle campagne ci si riuniva e qualcuno diceva «cunti» ed erano sempre «cunti curiusi con risvolti umoristici (almeno così ci hanno raccontato), e lo spirito caustico abbonda nei paesi per irridere ai signori della città, quasi per una rivincita di classe (ne restano antiche tracce nelle canzoni popolari), così Winspeare intesse la sua storia di frammenti di vita che si esauriscono e poi si ripetono, come fosse un andamento di strofe e ritornelli o un labirinto come lo è il paese stesso dove ci si ritrova poi nella stessa piazza a parlare delle stesse cose con le stesse persone.

Il tono è di favola che attinge a fatti reali, una Macondo dove il tempo si è fermato, dove i personaggi («poetici, capaci di sognare») sono il distillato delle classi sociali: il sindaco, notabile del paese che appartiene a quella classe sociale che mai si scompone (Gustavo Caputo), l’intellettuale erudito, studioso del duecento grecanico (interpretato dall’editore Piero Manni), la donna che può sorreggere la famiglia intera e anche il comune (Celeste Casciaro), la stasi degli avventori del bar, i popolani senza prospettive, il reduce che ha perso la testa. Figurine di un presepe a cui non manca l’elemento religioso sempre presente in terra di Controriforma, ma colto subito nel suo risvolto pagano come nel supporter di papa Francesco.

L’intreccio inedito di serietà e leggerezza applicati alla commedia («è la mia prima commedia») assomiglia alla personalità di Winspeare che come se nulla fosse in questi anni ha creato tutto un movimento culturale accanto alla sua attività cinematografica, allevando maestranze e regalando con i suoi film eventi poetici non certo inoffensivi. Sarà anche lento il ritmo del Salento, ma per quanto possibile, come indica la parabola di questo racconto, è sempre all’erta e in lotta per salvaguardare la sua natura, coste, ulivi, animali e cristiani (termine salentino per indicare tutti gli uomini).