L’antro dell’alchimista di Antonio Marras a Milano, lo spazio «Nonstante Marras», si rivela inaspettato dietro il portone di un palazzo sobrio: non lasciare le bici NEGLI ANDRONI, ammonisce un cartello consumato, e poi il vessillo di lettere rosso Marras (un porpora fenicia) introduce al cortile milanese che è giardino segreto di piante vere e panchine di foggia vegetale.

Dentro è il sogno del caravanserraglio, dove vola una giostra di fantasmagorici kimono di seta, attorno al perno della stanza: la libreria fatta di cassetti, abitata da volumi di storia dell’arte, cataloghi di mostre e di collezioni di moda di stagioni lontane, saggi di David Lynch, narrativa.

A pochi giorni dalla sfilata la tensione dello staf del padrone di casa si esprime solo con una concentrazione garbata, i gesti di chi porta pile di abiti sono fluidi e sorridenti: più da pesci tropicali che da assistenti di uno stilista di fama. Ma Antonio Marras è, solo, uno stilista? «Non lo so, sono cambiato così tante volte da stamattina». Sarebbe la risposta nel Paese delle Meraviglie a cui questo luogo fatalmente somiglia.

La cortesia insulare per gli ospiti forse trattiene l’apprensione lavorativa, ma non l’istinto di narrare, che in Marras trova strada attraverso tanti registri e gli fa cominciare la conversazione intingendo nella tazzina un pennello a setole piatte: con il caffè rimasto sul fondo non legge il futuro ma colora disegni suoi su un blocco che tiene in grembo. Che poi anche l’arte è una forma di divinazione.
Marras è sempre attratto dai fuori pista, che sembrano addirittura preponderanti per lui rispetto al tema della moda in senso stretto, affluenti ingombranti di una piena creativa. Ci sono (state) le sfilate, la nuova collezione ispirata all’universo di Maria Lai, la mostra a lei dedicata allestita a Matera fino all’8 aprile (Trama doppia, 300 opere e diversi inediti dall’archivio privato di Marras realizzati da e con l’artista sarda) e c’è molto altro: le produzioni ceramiche coi Fratelli Colì, il teatro (lo spettacolo di cui Marras è regista, e costumista Mio cuore io sto soffrendo: cosa posso fare per te? sbarca a New York a maggio). Lui spiega che «andare altrove è una strada obbligata, questo è il mio modo di muovermi, per rapide e rimbalzi con l’incursione in ambiti diversi come costante. La creatività va dove gli pare e non posso imporle scorciatoie o corsie preferenziali, magari si ferma ma poi i processi si ripristinano e fioriscono varianti, sorprese. Ci sono cose che nascono al rovescio, da dove dovrebbero finire».

Inventare per Marras è trovare, come etimo vuole. Del resto diceva Maria Lai, la maieuta che lo ha fatto rinascere a vita creativa, quel che artisticamente trovi e rubi diventa tuo. Marras si imbatte materialmente nelle cose e le salva, le accumula, le stratifica conferendo loro spessore e senso. La sua maglieria ha inserti di pizzi della tradizione di Alghero, i cappelli vagamente giacobini che un collaboratore uscito dalla crew delle Avventure acquatiche di Steve Zissou gli sottopone, sono stati recuperati da un mercato di strada. L’arte di Marras è circolare: lui ripete di venire dalle pezze, dagli stracci, di avere l’animo da rigattiere, e non è un vezzo. «Stamattina sono arrivato a Milano da Alghero e mi sono fermato al mercatino di piazzale Cuoco, una fonte di ritrovamenti e ispirazione. È un posto vero dove vedi e senti la povertà e la disperazione di chi raschia il fondo del barile e lo mette in vendita. Uno dei luoghi dove non è di moda andare, pieno di quello di cui non si vuol vedere. E ce ne sono di posti così, anche vicinissimi. Ma è disdicevole vedere e guai a toccare: nessuno vuol sporcarsi le mani». L’incursione è stata fruttuosa? «Andando via ho trovato questa». Mostra quel che resta di una scatola di latta, da biscotti, un motivo floreale e botanico la adornava e si indovina ancora tra gli acciacchi. Ora è schiacciata e bidimensionale, come i personaggi di un cartone della Warner Bros; una povera cosa che tra le sue mani sembra animarsi di nuova luce e vita: diventerà l’idea di un fregio su un abito, forse il centro di una cornice, il pezzo colorato che mancava dentro il caleidoscopio di una trovata scenica o di quella che diventerà una capsule del tempo. Recuperare è anche sanare. Altro elemento che lo avvince a Maria Lai, la jana che nel 1981 (era l’8 settembre e l’artista, cui venne commissionato un monumento cittadino, volle commemorare non i caduti ma i viventi) ha legato tra di loro le abitazioni del paese di Ulassai, dando vita di fatto, oltre che al primo esempio di arte relazionale, a una terapia di gruppo della comunità attraverso la ricognizione del dolore e del rancore della sardissima e umanissima disamistade; col progetto Legarsi alla montagna (un documentario nuovo di zecca, diretto da Maddalena Bregani lo racconta bene) un nastro celeste è passato tra le case di questo angolo di Ogliastra, diritto dove i litigi erano insanabili, con un fiocco dove guariti, con una forma di pane appesa dove è nato amore, e così su fino alla montagna.

Il nastro, rosso nel suo caso, è cifra poetica anche di Marras, che lo arrotola attorno ai polsi come laccio emostatico, lo usa per chiudere vecchie valigie e adornare forme di pane. Questo filo tiene forse chiusi i lembi delle ferite? «Filo chirurgico sì…alla Triennale nel 2017 ho messo in mostra (Nullo dies sine linea) proprio i punti di sutura…».

Il sollievo passa per il femminile anche nel progetto Salute allo specchio portato avanti da Patrizia Sardo Marras in collaborazione con Maria Mantero della comasca Mantero seta: Antonio Marras ha ideato 10 turbanti battuti all’asta, il cui ricavato è servito ad acquistarne altri 100, di seta e cachemire, da donare alle pazienti oncologiche degli Ospedali di Alghero, Sassari e Ozieri con la collaborazione dell’Associazione di Oncoematologia «Mariangela Pinna» O.n.l.u.s. «Il conforto spiega Patrizia Marras, passa anche da un oggetto bello e che aiuta a sentirsi più belle. E quindi anche a sentirsi meglio».

Dalla sarditudine non si prescinde. «Da Alghero catalana poi…è un mondo, in cui sono passati tutti e dove è normale per gli abitanti lanciare la cima a chi sceglie di approdarci». Cima che fuori dall’acqua subisce una metamorfosi e farsi radice, così come l’animale corallo diventa pietra. Perché la terra sarda crea legami fortissimi anche con chi non ci è nato. Un esempio? Il lombardo Gigi- Rombo di Tuono -Riva, che ai quattrini della Juve preferì sempre la maglia del Cagliari. Nel 2020 di compleanni tondi il club di Casteddu festeggia il suo primo secolo di vita e la divisa dell’anniversario, con lo scudetto trasformato in vela, i volti dei quattro mori sintetizzati in segni grafici, sfondo bianco e poche decise pennellate di colore, gliel’ha disegnata indovinate un po’ chi.