Ci sono ancora dei buchi neri, dice Pippo Delbono chiamando gli spettatori a un cammino da fare insieme verso La gioia, come suona la nuova creazione presentata all’Arena del Sole. Lo spettacolo non è finito, quante volte glielo abbiamo sentito dire al debutto di uno spettacolo. Per l’artista ligure vale sempre la necessità di dover comprendere, lui per primo, quello che la scena gli mostra. Qui si apre sulle note di una programmatica Don’t worry be happy e l’immagine intermittente di un attore che entra a ripetizione in scena a innaffiare le piante di un giardino in continua crescita. È il presagio dell’esplosione floreale che invaderà la scena nel finale, nella coloratissima composizione di Thierry Boutemy, fleuriste si definisce questo normanno basato a Bruxelles ma è piuttosto un artista dei fiori con collaborazioni che vanno da Sofia Coppola a Lady Gaga.

Ed eccolo lì, Delbono, a rovesciare la prospettiva aperta dal titolo. Verso una fragile meta che intanto deve fare i conti con il dolore, la morte, la follia. Non parlerò più di mia madre, dice con un divertito richiamo agli ultimi lavori. Il dolore ha preso un’altra strada. Perché questo dolore? si chiede, davanti a qualcosa di incomprensibile, che contraddice quel che oggettivamente dovrebbe consigliargli uno sguardo felice sulla sua condizione. Eccolo raccontarsi, raccontare la propria follia, seduto al centro di una gabbia di lunghi pali scesi dall’alto a imprigionarlo. E sono le parole dell’Enrico IV di Pirandello a cercare di dare razionalità a questo sentimento che poi scivola in un «lasciatemi vivere sconsolato». La follia perseguita come fuga dalla realtà, consapevole che guarire significa sapere di fare il pazzo, il problema è di chi non riesce a riconoscere la propria pazzia.

Quasi come per un atto terapeutico, Delbono convoca sulla scena quello che sa di possedere, l’unico rifugio certo. Il suo teatro con la sua storia, la sua compagnia. Come luoghi da ripercorrere. Li chiama a uno a uno sulla scena, i suoi attori. Nelson che quando l’incontrò era un barbone vero, è lui che con passo un po’ saltellante si dedica al giardinaggio. Ilaria con cui danza un passo di tango, la danza della gioia. Il clown bianco Gianluca che vedremo anche esibirsi in playback nella Maledetta primavera di Loretta Goggi. Grazia che balla da sola la Petite fleur di Henry Salvador. E tutti gli altri che compongono un gruppo di maschere in costumi di gusto fantasy.

E naturalmente Bobò, il piccolo vecchio uomo che da più di vent’anni è diventato un elemento imprescindibile di questo teatro e circondato da tutti i compagni spegne le candeline del compleanno. Ma prima erano riapparsi anche i due «barboni» scappati da Aspettando Godot per ritrovarsi su una panchina da giardinetti – che emozione danno ancora quei gesti che si scambiano lui e Pippo.

Intanto l’artefice racconta piccole storie raccolte in giro per il mondo. Il vecchio attore incontrato a Bali che da settant’anni fa un’unica parte, fa la scimmia però in maniera magistrale. L’evocazione di un infantile desiderio di diventare trapezista, reso visivamente dall’oscillare di una lampada stradale. Il boscaiolo che deve lasciare il proprio mestiere perché il suo destino è di essere lo sciamano del villaggio.

Il palco viene disseminato di barchette di carta, altra immagine sottratta alla memoria, o vi si svuotano sacchi di panni colorati a formare un altro mare, quel «mare nostro che non sei nel cielo» della laica preghiera di Erri De Luca; mentre dalla voce di Totò si alza un’altra preghiera, la preghiera del clown de Il più comico spettacolo del mondo. Fai che non manchino mai pane e applausi. Alla fine saranno invece i fiori a riempire la scena, come si è detto. Ed è ora una prigione fiorita quella che scende dall’alto, a contenere l’ultimo urlo di Delbono. Il cammino è giunto alla sua provvisoria conclusione, con un personale filo di commozione. Qualunque fiore tu sia, quando verrà il tuo tempo sboccerai.