Ci sono i Low dei primi dieci album, quelli nati nel 1993, quando il rock americano era in balia degli esperimenti rinoplastici inflitti a Led Zeppelin e i Black Sabbath sul tavolo operatorio del grunge. E poi ci sono i Low degli ultimi tre album: (quasi) tutta un’altra storia. Mimi Parker e Alan Sparhawk sono una coppia – nella vita come nell’arte – di mormoni da Duluth, la cittaduzza del Minnesota che diede i natali a un certo Robert Zimmerman. Atmosfere da Spoon River, luce dritta che filtra nella penombra di sacristie nonconformiste illuminandone le insospettate danze polverose, enormi spazi fra i pochi strumenti, tempo svergognatamente lento. Interessante reazione a quell’overdose di decibel mascolini, certo, ma pur sempre una reazione.

FINCHÉ, molti anni dopo, nel 2015, piovvero non si sa bene da dove questi Low prodotti dal super-mainstream BJ Burton (Taylor Swift, Miley Cyrus, Eminem). Stupefacente fioritura tardiva! Un crescendo scintillante di tre album – Ones and Sixes, Double Negative e ora quest’ultimo Hey What – dove le magnifiche armonie vocali e le chitarre sono avvolte in un ostile involucro elettronico-industriale che fa venire in mente l’oltraggio del primo Dylan elettrico a Newport, nel ’65.
Ebbene, chi non conosce i Low potrà cominciare tranquillamente da qui. Senza nulla togliere alla loro primigenia incarnazione, questa band tiene un altro passo. Commuove, agita, preoccupa. Intima. Tende e comprime le emozioni come le molle di un vecchio materasso. Soprattutto dice meglio di ogni altro connazionale contemporaneo lo sfacelo sociale degli Stati Uniti post-Trump, la parabola di un’estetica folk in bilico fra la Rust Belt e la Silicon Valley, disegna un paese strappato dentro che sventola una bandiera dove le stelle collassano e le strisce strisciano.

NELLE MANOPOLE di BJ Burton, le chitarre torte allo stremo già dei My Bloody Valentine vengono troncate su un tagliere, soffuse di rumore bianco, danno l’impressione che il tuo stereo sia… rotto. Infatti, contrariamente al racconto di E.M. Forster, in Hey What la macchina non si è fermata, si è rotta. I brani procedono per tentativi, a scatti, a tentoni. La vita nel trailer park americano, il rapporto coniugale di Parker e Sparhawk, il rifiuto mormonico della modernità si accomodano improbabilmente nella produzione cacofonica eppure patinata di Burton. Col permesso di Death in June e Current 93, è questo il nuovo, vero folk apocalittico.