Come si sta nel Draghistan? Dopo un’incruenta presa del potere e dopo mesi in cui il governo ha veleggiato con consenso pressoché generalizzato, sta arrivando per molti «l’inverno del nostro scontento». È vero che ci sono ancora talebani a presidio dei suoi organi di stampa.

Giornali che inneggiano lodando il Leader e la barra del timone che Egli tiene ben ferma sulla rotta tracciata. Ma è anche vero che il Paese, quello reale, non pare troppo convinto. Il Tecnico al di sopra delle parti, chiamato per gestire «l’emergenza» cui i partiti non parevano saper far fronte (o forse solo alcuni tra i loro uomini e donne), per quanto sobrio e ben ispirato, ha sempre avuto non solo una sua «agenda» (legittima) ma una sua chiara visione del mondo. E pare ingenuo volergliela rinfacciare ora, come se fosse cosa nuova.

Nel Draghistan, infatti, vale bene il principio che si farà di tutto per riportare l’Italia sulla strada giusta sulla quale già dalla famosa «lettera» del 2011 – che avrebbe portato alle dimissioni del Signor B – avrebbe dovuto porsi. E Mr Draghi farà proprio «whatever it takes» (to keep things the way they are). Senza cattiveria, certo, con compassione (vedi reddito di cittadinanza), con condiscendenza (vedi green pass), con mirata oculatezza (vedi Pnrr). La transizione ecologica? Certo, ma non vorrete mica che si metta in discussione non diciamo il sistema capitalistico, sarebbe troppo, ma la stessa logica che ha guidato le scelte della nostra classe dirigente fin dai giorni del dopoguerra, quando il povero Ferruccio Parri dovette arrendersi all’evidenza? Lasciamo che sia il mercato a guidare le nostre scelte, perché il mercato ha sempre ragione.

Se Mr. Draghi è perfino capace di auto-compiacersi, ma solo per dare l’assist ai suoi talebani della stampa, di un’economia che «cresce» più del 6% e più degli altri Paesi europei, sa bene però, come ha saggiamente ricordato Pierluigi Ciocca su queste colonne, che l’Italia partiva da una recessione (un crollo) maggiore degli altri e che da più di vent’anni non aveva fatto che allontanarsene.

Del Pnrr, uscito dagli orizzonti della discussione politica, tutta presa in una frenesia da bottega dall’elezione del prossimo presidente della repubblica e dall’autocompiacimento (a sinistra) che il fortino elettorale ha retto (e se poi questo non si è allargato, tant’è), non si parla più. E sono quei partiti che dovrebbero seriamente riflettere su quale consenso si reggono che non ne discutono.

Le scadenze da rispettare, secondo i calcoli dello stesso governo dettagliati in un decreto di agosto – finora il documento più chiaro e utile sul Pnrr – sono in tutto più di cinquecento: 527, per la precisione, 213 traguardi qualitativi e 314 obiettivi quantitativi. I dati analizzati e rielaborati dall’Osservatorio sui conti pubblici, peraltro, danno un’idea di quanto la vana quanto prolissa «discussione» politica sia fuorviante e non colga dove sta la sostanza.

Non si voleva necessariamente una grande opera di «programmazione», come ai bei tempi, ma almeno che ci fossero proposte e contenuti da apportare a quelle 527 «schede» (ne aveva parlato Filippo Barbera in un articolo su questo giornale già mesi fa del «vuoto» politico dietro al Pnrr).
Quanto il Draghistan non se la passi bene, peraltro, vengono a testimoniarlo gli ultimi dati dell’Istat sull’occupazione. I nostri giovani (15-24 anni) ne sanno qualcosa. L’Istat ci ricorda che 1 giovane su 3 è disoccupato, proprio come un anno fa (e come due anni fa). Per ogni due giovani occupati, ce n’è uno che non lo è.

Per i giovani adulti (25-34) il rapporto è quasi di 1 a 7 (ma gli inattivi sono 2 a 7). E gli occupati? Nel complesso, l’aumento rispetto a un anno fa è di 273mila unità, date da un +422mila tra i dipendenti e un -150mila tra gli indipendenti. I dipendenti, però, aumentano di 69mila unità tra quelli a tempo indeterminato e di ben 353mila tra quelli «precari».

In totale, in Italia abbiamo quasi 15 milioni di occupati stabili e 3 milioni di precari, cui si aggiungono i quasi 5 milioni di autonomi. 22,9 milioni di lavoratori per mantenere una popolazione di quasi 60 milioni. Ben lontani, ancora, da quel massimo che si era raggiunto nel giugno 2019 di 23,4 milioni (e che già nel dicembre era sceso di più di 200mila unità).

Il Draghistan non è paese per giovani, e questo era noto. «Il recupero dei ritmi produttivi continua», dice il governo, «con la possibilità di chiudere il gap rispetto ai livelli pre-crisi nei prossimi mesi». La ridotta base produttiva, però, indica che ci vorrà ben di più per rimettere in strada il Paese. E se poi si volesse davvero che la crescita fosse «inclusiva», come va la parola d’ordine, lo si dovrebbe vedere già dalla legge di bilancio e dall’allocazione dei fondi del Pnrr. Ma, su questo, Mr Draghi ha le sue idee. Quanto coincidano con quelle dei partiti che lo sostengono non è dato sapere, perché da quelli non viene profferito verbo. Che difendano pure il fortino, che tanto quelli che sono fuori si sono estromessi da soli. E chi è cagione del suo mal pianga se stesso.