All’ingresso, tutti in fila, controllano il certificato verde, qualche metro più avanti il biglietto elettronico. Tutti indossano la mascherina. Quando si entra nell’immensa Sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica, lo spazio del palcoscenico e della gradinata che lo abbraccia, si apre come il luogo di un rito che si attendeva, che finalmente si celebra di nuovo, dopo l’astinenza imposta dalla pandemia. Entrano i musicisti dell’orchestra, si dispongono distanziati l’uno dall’altro. Entra il coro e si dispone sulle gradinate con un distanziamento ancora più ampio. Il primo violino, Carlo Maria Parazzoli, dà il la sul quale gli strumenti devono accordarsi. Entra il direttore, Jakub Hrusa. Attacca, con violenza estrema, la Seconda Sinfonia «Resurrezione» di Gustav Mahler. È un attacco indimenticabile. Vi si accumulano memorie di attacchi musicali imprescindibili: l’inizio della Valkiria di Wagner, che è, insieme agli attacchi di quasi tutte le sinfonie di Bruckner, la pagina che ha acceso la fantasia di Mahler. Ma la memoria si spinge indietro all’attacco della Passione secondo San Giovanni di Bach, e si proietta aventi all’inizio della Nona di Beethoven. Beethoven, per questa sinfonia, è quasi un sottotesto, l’indicazione del discrimine tra dicibile e indicibile ch’è sempre il discrimine della musica. Certo che c’è un «programma interiore», come Mahler confessa, ma la musica non è linguaggio o è un linguaggio che non ha la determinatezza semantica delle lingue. La musica occupa uno spazio particolare della comunicazione umana: uno spazio in cui il gesto, la dizione si aprono a significati indeterminati, multipli, non traducibili in parole.

LA MUSICA comincia dove finisce il linguaggio, scrive Debussy. Mahler, che pure è diversissimo da Debussy, ma è quasi suo coetaneo, occupa quello spazio, lo spazio dove il linguaggio non sa più parlare. Ma Mahler è anche boemo, boemo ed ebreo, di cultura tedesca, come il suo contemporaneo Kafka. È austriaco, erede di Schubert. Tutte queste cose entrano nella sua musica. Di Beethoven non è citato solo l’attacco della Nona, bensì, ancora più profondamente l’Eroica: il primo tempo di questa seconda sinfonia è una sorta di sintesi del primo tempo (gli accordi dissonanti ribattuti) e della marcia funebre dell’Eroica. È una sinfonia dei morti. La resurrezione del titolo è solo intravista, promessa. Ma non si realizza. Il paradiso, Dio, sono l’aspirazione di un bambino: «risorgerai, mio cuore». Ma solo come speranza.

DOPO il primo movimento, Hrusa fa una pausa (Mahler chiede, in partitura, 5 minuti!): entrano le due voci soliste, il soprano statunitense Rachel Willis-Serensen e il contralto tedesco Wiebke Lehmkuhl. Un Ländler e poi lo sconvolgente Scherzo, Berio lo userà come traccia in un tempo della sua Sinfonia, un Lied del Wunderhorn, la predica ai pesci di Sant’Antonio di Padova. Un altro Lied, «Luce primordiale», e poi il Finale, la «Resurrezione». L’utopia di un’uscita dal dolore. Ma il Canto della terra, anni dopo, ribadirà che non c’è uscita: «ewig», eternamente, il distacco, il nulla. Tutte queste riflessioni s’inseguivano durante l’ascolto. Hrusa, il giovane direttore moravo, ospite principale dell’Accademia, ci offre una lettura sconvolgente, intricatissima, tormentata, urlante, ma anche dolcissima, di questa sinfonia, assecondato meravigliosamente dalle interpreti soliste, dall’orchestra e dal coro. Una sorta di lezione magistrale in cui pensiero e sentimento sono indistinguibili. È quanto di più mahleriano si possa ascoltare.

CONTRASTI, contraddizioni, interruzioni, sovrapposizioni di emozioni anche opposte, tenerezza e violenza, contrappunto esasperato dei timbri orchestrali, concorrono a formare una visione unitaria, un messaggio di disperazione assoluta, senza resurrezione, senza redenzione. Non c’è Messia, non c’è Giudizio Finale: c’è l’inconsolabile dolore del vivere. Di tutti: uomini, animali, piante. Una sorta di panteismo della sofferenza, di dolore cosmico. E il pubblico, commosso, esplode in ovazioni trionfali.