C’è, nella parola irrequietezza, lo scintillio della condizione umana. È una alterazione che ha a che fare con un breve impulso sensoriale oppure con uno stato d’animo più scavato. Del primo ci racconta Nicola Fera e del secondo Barbara Ruollo, le creature protagoniste dell’ultimo romanzo di Nadia Terranova, Trema la notte (Einaudi, pp. 167, euro 16,50). Incontriamo entrambi il giorno prima del terremoto che, il 28 dicembre 1908 alle 5.27, distrusse Reggio Calabria e Messina con una scossa cui ne seguirono molte altre.

Nicola ha undici anni, dorme nella cantina della sua casa genitoriale di Reggio Calabria, legato da «corde sante» trascorre le sue notti costretto dalla propria madre al catafalco agghindato appositamente. Avverte, e noi con lui, ogni più piccola alterazione corporea ed è visitato da animali vocianti e indicibili. Barbara è una giovane donna che alla vigilia del disastro parte da Scaletta Zanclea alla volta di Messina per andare a trovare la nonna, vuole studiare, diventare una scrittrice, vuole più di ogni altra cosa essere libera. Nicola conosce i segreti del sottosuolo, che Terranova sistema nell’«Appeso», il primo dei ventidue Arcani Maggiori secondo cui il romanzo è suddiviso. Barbara è invece protesa con lo sguardo verso l’altrove, nel distacco esplorativo di un’aria vivida, con il romanzo di Letteria Montoro tra le mani, Maria Landini. Lei è amica della «Luna». Se l’irrequietezza di Nicola è orale, nella sua fame inarrestabile, quella di Barbara è pupillare, sta dentro una pazienza desiderante.

NADIA TERRANOVA consegna un libro potente, profondo come lo sono le viscere in cui ci accompagna, a un tempo documentato su ciò che è avvenuto in quei giorni di apocalisse terrestre e generativo di alleanze. Tante e tali sono le sincronicità che lei stessa, con sapienza, cuce al dritto e al rovescio per descrivere il congedo improvviso di un mondo che ne restituisce un altro inimmaginabile ma con cui ci si deve confrontare.
È un taglio che arriva a indicare la necessità di perdonarsi per essere rimasti in vita dopo un evento simile e, contemporaneamente, ammonisce sulla responsabilità dell’essere sopravvissuti.
Trema la notte indaga il senso di una rinascita dalle macerie, le rende fertili come dei fiori bianchi e miracolosi apparsi in sogno, considera che la perdita può avere al proprio interno una permanenza capace di farsi futuro. La lezione è ravvisabile anche in altri romanzi della scrittrice messinese, in quel tenere insieme vivi e morti, anime dolenti e fantasmi da perdonare.

TUTTAVIA QUI a essere narrata è anche la storia di territori sopraffatti, come altrettanto assediati sono stati i corpi di chi è rimasto sepolto sotto le case e i palazzi. Racconta, Nadia Terranova, l’azzeramento dell’umano, la miseria della violenza che pure si annida nel dissesto. Quella che rende muti, mettendo in scacco il linguaggio dell’infanzia; sono le giornate della nave «Morgana» che da Reggio Calabria porta gli sfollati a Messina, e viceversa; dei villaggi costruiti con baracche e accampamenti, di file per il cibo, di una orfanità incalcolabile, della povertà che si è avvitata sullo Stretto, insieme alle tante solitudini.

Eppure, in questo doloroso paesaggio, che come orizzonte ha il mare, c’è un carsico vagare il cui piano destinale, spirituale e materico, si staglia come in una stesa dei Tarocchi. Sono essi simboli preziosi di meditazioni e orientanti di un patrimonio culturale antico, rappresentati qui dal sentiero difficile di una sopravvivenza nello scavalco di un’epoca. Se tutto, d’improvviso, cambia di segno bisogna lottare con ciò che si ha. Con quel poco, quasi niente. Le vite di Nicola e Barbara, come quelle di Jutta, Rosalba, Elvira, Mimma e altri, vengono stravolte al pari di migliaia di altri e poi riavvolte dalla mano salda di Terranova.

È UNA MANO di scrittrice che all’opposizione preferisce il senso della relazione, del rammendo storico e simbolico di una tela più vasta, si fa largo dentro un buio fittissimo, con intermittenze luccicanti. Ad attraversarlo, questo buio pesto, si precipita in lunghe e profonde lettere, come quella bellissima che Nicola scrive alla sua amica Emma; si avvicinano infine consapevolezze a conti fatti con la realtà; per esempio che spesso le famiglie non sono solo quelle che ci capitano in sorte bensì quelle che scegliamo nell’invenzione di noi stessi. Quando non abbiamo altro che noi stessi, l’unico modo di lottare è stringerci gli uni agli altri, uno dei punti che in Trema la notte è manifesto politico del vivere in comune gli affetti. Sembra allora di udire la voce di quegli «Amanti» che baluginano quasi in chiusa, tendendo l’orecchio li sentiamo entrambi in un nitido bisbiglio: «Ti ho trovato». «Chi mi cerca mi trova». L’irrequietezza si apre così alla condivisione del mondo. E anche il tremito, quello che rimane nelle fibre smarginate dei viventi dopo il trauma di un terremoto, è cosciente e sentimentale presa d’atto della propria fragilità.