La vera conclusione del diciannovesimo congresso del partito comunista si è avuta solo ieri, con la consueta sfilata dei sette membri del comitato permanente del Politburo.

Si tratta di nomi che confermano le indiscrezioni uscite sui media nei giorni scorsi che volevano la «sesta generazione» ancora nell’anticamera del Politburo, composto da 25 membri, ma non nella stanza dei bottoni.

Si tratta di un comitato permanente che pur essendo nell’aria non ha risparmiato sorprese, confermando altresì la natura composita del partito comunista al cui interno di muovono fazioni, clan e correnti. Il primo dato è l’assenza di un potenziale successore di Xi Jinping: tutti i membri del comitato sono oltre i 60 anni di età, troppi per poter aspirare a prendere le redini del potere dal 2022.

La consuetudine dunque di vedere tra i sette – o i nove, come in passato – il leader del futuro è svanita, ma non è detto non si ripresenti tra cinque anni: in quel caso significherà che Xi Jinping sarà al potere per 15 anni, anziché i canonici 10. Nell’ambito dei cinque nomi nuovi ci sono profili interessanti, su cui spicca quello di Wang Huning, un teorico senza alcuna storia amministrativa alle spalle. La sua presenza nel comitato permanente del Politburo è forse l’elemento di maggior novità. È lui, come vedremo, che dagli anni ’80 costituisce la «penna» di tanti leader, avendo partecipato alla stesura delle teorie di Jiang Zemin e Hu Jintao e ora di Xi.

Cominciamo ad analizzare i membri che governeranno la Cina per i prossimi cinque anni a partire dal numero due, Li Keqiang. È stato confermato, come era previsto, nonostante negli ultimi anni la sua stella si fosse offuscata. Li ha pagato caro la crisi della borsa di Shanghai nel 2015 ed è stato ridimensionato da Xi Jinping che allora scelse di prendere in mano anche la gestione economica del paese. È ancora il numero due ma dato l’arrivo di Wang Yang nel comitato, anche questa volta Li Keqiang potrebbe avere un ruolo marginale.

Wang Yang, ex governatore del Guangdong, ex segretario di Chongqing e vice premier, è il «negoziatore» cinese. Doveva già essere nominato nel comitato cinque anni fa poi la sua nomina saltò. Considerato un liberale, un riformatore, potrebbe essere la carta nelle mani di Xi per dare vita a quelle riforme delle grandi aziende di stato di cui si parla da tempo. Alleato, o comunque considerato nella fazione di Hu Jintao, Wang Yang è di sicuro apprezzato anche da Xi Jinping. Per Wang Yang è previsto il ruolo di direzione della Conferenza politica consultiva del popolo, l’organo di «consultazione» più importante del paese.

Un alleato del presidente è sicuramente Zhao Leji. Quest’ultimo era a capo del potentissimo Dipartimento per l’organizzazione del comitato centrale, responsabile delle nomine più importanti all’interno dei meccanismi di governo del partito: da oggi è il nuovo capo della Commissione centrale per l’ispezione disciplinare, ovvero il è nuovo boss dell’anti corruzione a sostituire l’ex braccio destro del presidente Wang Qishan. È considerato un alleato di Xi perché avrebbe favorito molte nomine dei protetti del numero uno.

Altro uomo di Xi è da considerarsi Li Zhanshu, già capo della staff del presidente e futuro capo dell’Assemblea nazionale cinese, quanto di più simile esista all’interno dell’ordinamento a un parlamento. Li è stato uno di quei funzionari cui Xi Jinping deve la definizione di «nucleo» del partito e si era distinto anche nella recente visita del presidente cinese negli Stati uniti.

Già segretario del partito di Shanghai e dunque da annoverare tra i vicini al grande vecchio della politica cinese Jiang Zemin è invece Hang Zheng che ha saputo districarsi nella gestione dell’Expo nel 2010 e nella recente esperienza di Shanghai come zona economica speciale. La piazza di Shanghai può essere propedeutica a grandi carriere così come a rovinose cadute. Il fatto che Hang non si sia mai mosso fuori dalla metropoli costituisce un altro motivo particolare all’interno delle logiche del Pcc che solitamente premia funzionari che abbiano dimostrato la propria capacità in ambiti territoriali diversi.

Infine il nome più inconsueto, quello di un teorico, Wang Huning di 62 anni. La storia di Wang è particolare: studioso di scienze politiche produce una dozzina di libri e oltre 50 articoli accademici, specializzandosi nel rapporto tra centro e periferie nella gestione delle aperture e delle riforme. Poi viene assunto a Zhongnanhai con il ruolo di teorico e ideologo del partito e sparisce dalla scena accademica. Jude Blanchette, osservatore della Cina e membro del China Center for Economics and Business, ne ha ricordato sul suo sito internet alcune pubblicazioni sostenendo che la sua teoria, nota come «neo-autoritarismo» (xin quanwei zhuyi) abbia segnato in modo netto l’attuale leadership di Xi Jinping.

Secondo Blanchette la dottrina del «neo-autoritarismo» sosteneva che «la stabilità politica fornisce la struttura per lo sviluppo economico e che considerazioni come la democrazia e la libertà individuale dovessero arrivare più tardi, quando le condizioni fossero appropriate». Come ha scritto Wang – prosegue Blanchette – in un articolo del 1993 intitolato «Requisiti politici per l’economia del mercato socialista», la formazione di istituzioni democratiche «richiede l’esistenza di condizioni storiche, sociali e culturali specifiche. Finché queste condizioni non sono mature, il potere politico dovrebbe essere diretto verso lo sviluppo di queste condizioni».