«Caro ospite, al momento sei trattenuto nel Cie di Ponte Galeria. Ti sarà assegnata una card e un numero». Le regole sono stampate in tante lingue diverse e appese nella prima stanza che si incontra nel Centro di permanenza e rimpatrio (Cpr, ex-Cie). Per leggerle bisogna oltrepassare il grande cancello che interrompe il muro di cinta esterno e le grate grigie interne che per prime danno il «benvenuto».

Il Cpr situato alle porte di Roma ha una capienza di 250 posti, oltre un terzo dei 715 effettivamente disponibili (su 1.035 complessivi) nelle sette strutture simili attualmente in funzione in Italia. Tra queste, Ponte Galeria è l’unica ad avere una sezione femminile che può ospitare fino a 125 donne. «Ospitare», però, non è il verbo giusto. Chi finisce tra mura, sbarre e grate dei Cpr è un recluso a tutti gli effetti. Con una specificità: non ha commesso alcun reato.

Ieri a Ponte Galeria erano detenuti circa 50 uomini e 39 donne. Sono stati visitati da una delegazione promossa dalla campagna LasciateCIEentrare e resa possibile dall’onorevole Nicola Fratoianni (Liberi e uguali). È la seconda ispezione in pochi giorni, dopo che venerdì scorso alcuni migranti destinati al rimpatrio hanno dato fuoco ai letti di alcune unità della sezione maschile. Da materassi e coperte non si sono sollevate fiamme (sono ignifughi), ma un fumo denso e tossico che ha reso inagibili diverse stanze. Ancora ieri la puzza rendeva impossibile la permanenza, anche solo per pochi minuti, negli spazi interessati. Per questo diverse persone dormono all’addiaccio e, soprattutto, una trentina di reclusi sono stati liberati per «alleggerire» la pressione. «La rivolta paga», scrivono in un comunicato congiunto LasciateCIEentrare e una rete di associazioni.

 

I letti incendiati

Chi è rimasto dietro le sbarre chiede perché. Tra loro c’è qualcuno che ha finito di scontare la sua pena in carcere e qualcun altro ritenuto socialmente pericoloso. Lo Stato li vorrebbe rimpatriare. Tanti sono stati semplicemente trovati senza permesso di soggiorno. «Ero pizzaiolo in un locale – racconta un uomo nato in India – Un giorno il proprietario ha litigato con un collega. Ha chiamato la polizia che mi ha trovato senza documenti. Così due settimane fa sono stato portato qui. Lavoro in Italia da nove anni, ho provato a regolarizzarmi con la sanatoria del 2012 ma il datore di lavoro mi ha truffato non pagando i contributi». «Sono in Italia dal 2009 e ho sempre avuto il permesso di soggiorno, fino a febbraio di quest’anno – dice una donna boliviana – È scaduto prima che la signora da cui lavoravo mi facesse il contratto, come aveva promesso. Un giorno ho provato a sedare una rissa per strada, è arrivata la polizia e mi ha portato qui».

Nella sezione femminile le grate, cresciute in tutta la struttura dopo ogni fuga e rivolta, sono punteggiate da asciugamani colorati e vestiti stesi al sole. I muri sono disegnati e ci sono delle scritte. Dietro due ragazze cinesi che giocano a carte si legge: «La tranquillità è importante, ma la libertà è tutto». Come a ricordare che il problema non sono le condizioni di detenzione o i colori che mascherano il grigio, ma l’esistenza stessa di luoghi simili. La detenzione amministrativa dei migranti, introdotta nel 1998 dalla Turco-Napolitano, ha una storia segnata da sofferenze, episodi di autolesionismo, suicidi, diritti fondamentali negati. Una storia su cui andrebbe solo messa la parola fine. Il 12 ottobre a Milano ci sarà una manifestazione per chiedere la chiusura di tutti i Cpr e la non riapertura di quello di via Corelli.