«Non sono populisti» e non stanno difendendo i propri privilegi. Il Movimento dei forconi visto da Giuseppe Roma, direttore generale del Censis, esprime semmai una visione nostalgica della vita del Paese, ma per un motivo ben preciso. «Guardano all’antico perché non vedono un futuro», difendono lo status quo perché «non sono adeguatamente accompagnati nel cambiamento». E d’altronde – aggiunge il professor Roma allontanandosi per qualche minuto dalla sala di Palazzo De Carolis dove si svolgeva, ieri, il Forum di dialogo Italia-Spagna – un «contesto istituzionale confuso», tale da generare «un liquido amniotico di caos», non può che provocare paura. E reazioni «antieuropeiste e antimoderniste».

 

Professore, di cosa ci parla il simbolo del forcone?

È la rivolta contadina, la rabbia del lavoratore che esplode.

Una rivolta dal basso, quindi, eppure senza una piattaforma definita. Piuttosto sembra esprimere solo malcontento e insofferenza generalizzata, non è così?

È indubbio che c’è un disagio che sa solo volgere lo sguardo ai tempi antichi: parte da una realtà di crisi profonda, di problemi concreti ma che è anche un po’ l’espressione di uno sbandamento dovuto al contesto in cui l’incertezza è il dato caratterizzante del tutto.

«Smarriti» e «infelici», come avete definito gli italiani nel vostro ultimo rapporto Censis…

C’è una forma di sbandamento di sistema che rischia di provocare reazioni esasperate e piuttosto inconsulte. Piccole imprese e lavoratori autonomi di vari settori si trovano ormai in uno stato di incertezza che va al di là dei fattori macroeconomici. Questo non è più solo un problema di pressione fiscale ma piuttosto di un contesto istituzionale confuso. Basti pensare a tutto il pasticcio dell’Imu: è un sistema che crea un liquido amniotico di caos. In più dobbiamo anche considerare che le società sono ormai davvero multipolari. Mi spiego meglio: non è un caso che le mobilitazioni e le proteste si siano concentrate nello stesso periodo in cui i partiti tradizionali hanno tenuto le loro assise, dal Pd alla Lega a Forza Italia. È il senso di una presenza, per dire “ci sono anch’io”; insomma si ha un po’ l’impressione che in questo momento la rivolta può pagare quanto meno sul piano mediatico.

Si tratta dunque di popolo vero, secondo lei?

Mah, mi sembrano proteste organizzate un po’ sul modello “rivolte arabe”, grazie al tam tam di reti connesse tra loro. Però è indubbio che sono portatori di un tipo di disagio che guarda al passato, cercando un ritorno ai tempi in cui si stava meglio perché c’era meno concorrenza internazionale, avevamo le frontiere a proteggerci e c’erano vincoli regolativi. Come a dire: cosa ci importa dello spread se non abbiamo i soldi per pagare le tasse?

Quanto populismo c’è in questo tipo di rivolte?

Più che di populismo parlerei di una reazione alla paura per i grandi fenomeni che non si riescono a gestire. In questo contesto non c’è spazio per discorsi elaborati: si tratta di lavoratori abituati ad andare avanti con una competenza relativamente modesta e, ora che le cose cambiano e vengono tagliati fuori, non comprendono i motivi dell’emarginazione che vivono. E la attribuiscono tutta e soltanto ai grandi sistemi. In questo senso c’è poco populismo, che invece viene usato da chi cavalca questi movimenti: uscire dall’euro, non pagare i debiti, fregarsene delle regole prescritte dall’Europa, sono le parole d’ordine imposte da una gestione populista della rabbia. Ma il problema è reale: non stiamo parlando di impiegati che vogliono mantenere i propri privilegi ma di lavoratori autonomi o piccoli imprenditori che stanno perdendo terreno. Ricordiamoci sempre che dal 2008 abbiamo perso 1,1 milioni di occupati e 118 miliardi di Pil. Stavamo scivolando e ora si è un po’ fermata la ricaduta, ma a questo punto dobbiamo trovare il modo di ricostruire la base.

Nel rapporto Censis parlate delle lotte locali e territoriali come di forma residuale della politica. Si può dire lo stesso anche del Movimento dei forconi?

Benché simile come fenomenologia, quella è un’altra forma di protesta, di chi vuole conservare quel che ha. Dal sistema dei trasporti all’organizzazione sanitaria di base: si vuole cristallizzare tutto perché si teme di perdere le poche certezze acquisite. Insomma, c’è un’Italia che è riuscita a resistere e un’Italia che ha perso perfino la pazienza.

Ma almeno non hanno perso «il sale del fervore» come la media degli italiani secondo il Censis. O no?

Hanno un fervore conflittuale. E d’altronde non può che esserci una reazione di pura protesta quando non si riesce a vedere la conseguenzialità dei provvedimenti e non ci si sente sostenuto nel cambiamento. Facile che in queste condizioni si possa pensare che il passato sia meglio di un futuro senza speranze.

Per questo al loro interno si muovono agilmente formazioni di estrema destra come Forza Nuova o il Movimento sociale europeo?

Questo non lo so dire, ma è chiaro che in questo momento in tutta Europa c’è una ventata atieuropeista e antimodernista con i caratteri più della destra che dei movimenti progressisti.

Esprimono istanze di protezionismo: secondo lei sono argomenti che attecchiscono nella società italiana o in maggioranza siamo già in Europa?

È una società un po’ in mezzo al guado: perché abbiamo  chi pensa che un maggior grado di protezione possa limitare i disagi che percepisce in questo momento ma abbiamo anche 1 milione e 150 mila giovani che non hanno paura di oltrepassare i confini per realizzare i propri progetti anche in un altro Paese.