«A che serve una donna anziana in questo mondo? Una volta passata alla condizione di nonna non è più indispensabile a nessuno, il suo ruolo è definitivamente concluso»: così, nel 1854, scriveva Sophie de Ségur al figlio Gaston, appena ordinato sacerdote. Sophie – o meglio Sof’ja Fëdorovna Rostopcina, nata a San Pietroburgo nel 1799 e figlia del potente generale Rostopcin, considerato responsabile del grande incendio di Mosca – aveva allora cinquantaquattro anni e sette figli ormai adulti, e con questa sua frase malinconica sembrava esprimere il timore che, persa una «utilità biologica» ed esaurita la funzione materna, l’esistenza femminile si dovesse rassegnare all’irrilevanza.

DUE ANNI DOPO, tuttavia, la contessa avrebbe dimostrato che «una donna anziana» può diventare non solo indispensabile, ma addirittura insostituibile, almeno per il suo editore e per milioni di lettori grandi e piccoli. Nel dicembre del 1856, poco prima di Natale, sarebbe infatti apparso con enorme successo il primo dei suoi libri, grazie a un editore di genio che aveva deciso di dare fiducia a una debuttante quasi sessantenne, aprendole un’inaspettata quanto straordinaria carriera: fino alla morte, avvenuta nel 1874, Madame de Ségur avrebbe continuato a scrivere instancabilmente, facendo la fortuna della casa editrice Hachette con venticinque titoli ristampati infinite volte (si calcola che in Francia ne siano stati venduti più di trenta milioni di copie) e trasformandosi in una sorta di «Balzac dei piccoli».
Proprio da quel libro d’esordio, intitolato Nouveaux Contes de Fées, è tratto Antiche fiabe francesi (Elliot, pp.125, euro 20), che arriva ora in libreria con le illustrazioni, inedite per i lettori italiani, della diciannovenne Virginia Frances Sterrett, che, visibilmente influenzata da Kay Nielsen ed Edmund Dulac, negli anni ’20 corredò le fiabe di splendide tavole (quelle a colori sono purtroppo escluse dall’edizione italiana, che contiene solo le figurine in bianco e nero, ma l’originale della Penn Publishing Company si può sfogliare sul sito della Boston Public Library).
Virginia, scomparsa giovanissima (morì di tubercolosi nel 1931) e la cui storia di ragazza lavoratrice del Midwest non sfigurerebbe in un romanzo di L.M. Alcott, non poté mai permettersi un viaggio nell’Europa di cui sognava i musei o nell’Oriente da lei sontuosamente reinventato per le Arabian Nights (il suo capolavoro), mentre Sophie, cosmopolita e poliglotta, visse tra la grande tenuta di famiglia in Russia, le capitali europee, Parigi e il castello di Nouettes, in Normandia. Vite diverse, ma con qualcosa in comune: la decisione di usare le proprie capacità in modo «professionale», non solo per esprimersi, ma per assicurarsi l’indipendenza economica, inserendosi nella produzione di un’editoria che aveva individuato nell’infanzia borghese un nuovo e redditizio mercato.
«Sapete, Monsieur, che in una comunità coniugale la borsa del marito non si apre sempre per le esigenze della moglie; è questo che mi ha fornito l’idea e la decisione di scrivere», si legge in una delle tante lettere a Templier in cui la contessa rivendica compensi migliori e una percentuale sul venduto e contratta in prima persona, nonostante il codice napoleonico le imponesse, in quanto donna sposata, la tutela giuridica di un marito sempre assente, che l’aveva trascurata e tradita. Con la stessa determinazione, Sophie difendeva la sua scrittura da ingerenze o tentativi di modifiche: «Vogliate far ricopiare il manoscritto con esattezza, vi chiederei di non cambiare il titolo», scriveva proposito delle sue fiabe, che l’editore avrebbe preferito intitolare Contes à mes petits-enfants, per sottolineare che, in quanto nonna, de Ségur era una narratrice affidabile, e non una pretenziosa (e pericolosa) intellettuale.

MA LA CONTESSA, pur facendo presente tramite la dedica alle nipoti che la sua narrativa nasceva in ambito familiare e domestico, teneva più a definirsi come scrittrice che come grand-mère, e sin dal titolo mostrava l’intenzione di riallacciarsi alla fiaba letteraria imposta alla corte di Luigi XIV da Perrault, da Madame D’Aulnoy e da una schiera di dame che avevano contribuito a un corpus narrativo sofisticato e complesso, riunito nella seconda metà del XVIII secolo nei quaranta volumi del Cabinet de Fées. Che Sophie de Ségur si ispirasse a questa letteratura rutilante e barocca, è evidente nei richiami a La gatta bianca o a La principessa Rosetta di Madame d’Aulnoy, eppure i suoi cinque Contes (l’edizione Elliot ne riporta soltanto tre, escludendo Ourson e La petite souris grise, che, attraverso il tema dei «fidanzati animali», esplorano sotterraneamente l’alterità del corpo sessuato) non mancano di esibire elementi nuovi e inediti, come l’interesse per l’istruzione e l’educazione delle bambine.

QUESTE ULTIME occupano il centro del racconto in quanto tali e non come le donne che sono tenute a diventare, mentre la foresta in cui si perdono viene trasformata, da luogo di avventura, pericolo e meraviglia, in spazio educante che protegge e allo stesso tempo consente di sperimentare, proprio come avviene nel castello di Fleurville, sfondo della celebre trilogia elaborata da de Ségur tra il 1858 e il 1859, in cui alle ragazzine modello Camille e Madeleine si affianca uno dei primi esempi di bambina moderna, l’audace, disobbediente e trasgressiva Sophie, personaggio dichiaratamente autobiografico. E nelle fiabe incontriamo anche il primo, preciso accenno a due figure che nei romanzi della contessa saranno fondamentali: la madre esemplare e quella «indegna», che rimandano ancora una volta al suo vissuto, dalla passione pedagogica con cui allevò i figli, alle sue personali memorie d’infanzia (la contessa Rostopcina era stata, per la piccola Sof’ja, un’educatrice quasi sadica, prodiga di punizioni spietate).

I «NOUVEAUX CONTES», che mantengono le costanti e i personaggi tipici della fiaba di magia, compresa la sua spicciativa crudeltà, sono l’unica incursione nel fantastico e nel meraviglioso compiuta dall’autrice, che qua e là non manca di anticipare il vivace realismo dei romanzi successivi, sottoposti ad analisi multidisciplinari sempre più sofisticate da parte di critici letterari, psicoanalisti e storici che ne hanno studiato le indubbie contraddizioni, come la propensione, sottolineata da Simone da Beauvoir, a «descrivere una società matriarcale in cui il marito, se non è assente, appare un personaggio ridicolo», o la costante, suggestiva rappresentazione del proibito che affiora dietro i valori del cattolicesimo ultraconservatore verso il quale la contessa fu energicamente sospinta dall’amico Luis Veuillot e dall’amatissimo figlio sacerdote. All’interno di un quadro morale e sociale piuttosto rigido e nonostante alle fine vengano sconfitti, i bambini, e soprattutto le bambine, di Sophie de Ségur hanno continuato a inventarsi la libertà, a osare e a resistere: e forse è per questo che i suoi libri vengono, ancora oggi, pubblicati e letti.